Dopo una relativa quiete nella notte tra lunedì 5 e martedì 6 ottobre, sono proseguiti ieri per il decimo giorno gli scontri armati tra l’Armenia e l’Azerbaigian. Iniziate il 27 settembre sulla linea di contatto che separa l’Azerbaigian dalla repubblica autoproclamata del Nagorno-Karabakh, le ostilità si sono ormai espanse ben al di là di questa, arrivando a colpire la seconda città più grande dell’Azerbaigian e altri villaggi del paese, e non accennano a fermarsi.
Il bilancio totale sembra superare le 300 vittime, centinaia tra i militari e decine tra i civili, ma potrebbe essere di gran lunga maggiore: dal lato armeno sono state comunicate ufficialmente solo le vittime militari (280), mentre dal lato azero solo quelle civili (25), e non sono state effettuate verifiche indipendenti di queste cifre. Senza un deciso intervento da parte della comunità internazionale, il costo umanitario di questo nuovo, drammatico capitolo del conflitto trentennale tra Armenia e Azerbaigian rischia di essere altissimo. E il divario tra le popolazioni coinvolte richiederà sforzi ben maggiori di quelli fatti finora per essere colmato.
Il costo umanitario della guerra
Nei giorni scorsi, Armenia e Azerbaigian si sono accusati reciprocamente di colpire in maniera indiscriminata la popolazione civile, bombardando città strategiche e villaggi. La situazione umanitaria è grave in Nagorno-Karabakh, dove si contano già decine di migliaia di sfollati. Stepanakert, capitale della repubblica de facto, è sotto assedio da parte delle forze azere dalla scorsa domenica. Come testimoniano i pochi giornalisti internazionali presenti sul posto, tra cui l’italiano Daniele Bellocchio, l’intera città è in stato di emergenza: i missili balistici cadono senza tregua, le strade sono deserte, la gente è costretta a rifugiarsi sottoterra per proteggersi dalle esplosioni, mentre medici e infermieri lavorano senza sosta.
Un risultato della “corsa agli armamenti” intrapresa negli scorsi anni da entrambi i governi è che l’Armenia e soprattutto l’Azerbaigian possiedono oggi armi molto più letali rispetto a quelle usate all’inizio degli anni novanta. Basandosi su dei video filmati nelle zone residenziali della città, lunedì 5 ottobre Amnesty International ha corroborato l’uso da parte dell’esercito azero di bombe a grappolo fabbricate in Israele, ovvero ordigni vietati dal diritto internazionale umanitario. Denis Krivosheev, direttore della sezione Europa orientale e Asia centrale di Amnesty International, ha definito l’utilizzo di bombe a grappolo su centri abitati e aree residenziali “assolutamente scioccante e inaccettabile”.
Il 29 settembre, su richiesta dell’Armenia contro l’Azerbaigian, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha intrapreso delle misure provvisorie nei confronti di entrambi gli stati, esortandoli ad “astenersi da ogni provvedimento, in particolare da azioni militari, che potrebbe comportare violazioni dei diritti della popolazione civile, inclusi rischi per la loro vita e salute”. Il 6 ottobre tali misure provvisorie sono state estese anche alla Turchia, in quanto stato “direttamente coinvolto nel conflitto”.
Ma questo non basta a proteggere le popolazioni coinvolte nella guerra, soprattutto quelle residenti in Nagorno-Karabakh: come ha scritto il ricercatore Giorgio Comai, è necessario non solo che si giunga ad un cessate-il-fuoco il più presto possibile, ma anche che la comunità internazionale intraprenda azioni concrete per sostenere attivamente i processi di pace, trovare un compromesso tra le parti e offrire garanzie a tutela di un eventuale accordo, che protegga i diritti delle comunità coinvolte. Contribuendo alla percezione (forte a Baku) che i negoziati di pace siano inutili, il silenzio e l’indifferenza attuali alimentano il conflitto e rischiano di far precipitare una situazione umanitaria già precaria.
In una recente intervista, la regional manager di International Alert Sophia Pugsley ha inoltre elencato una serie di priorità umanitarie che dovrebbero essere perseguite dagli attori impegnati nel conflitto, indipendentemente dall’inconciliabilità delle proprie rivendicazioni. In primo luogo, garantire l’accesso agli aiuti umanitari, tutt’ora soggetto a restrizioni in Nagorno-Karabakh: la Croce Rossa Internazionale è infatti l’unica organizzazione umanitaria a poter accedere al territorio della repubblica de facto. La comunità internazionale, tra cui l’Unione europea che ha recentemente destinato 500 mila euro di fondi umanitari di emergenza per le popolazioni colpite dal conflitto, potrebbe intraprendere dei negoziati in questo senso. La seconda priorità è garantire la sicurezza delle popolazioni civili, per cui andrebbe affrontata la controversa questione della presenza di corpi di pace, attualmente assenti sul territorio del Nagorno-Karabakh. Successivamente, sarà necessario ripristinare il dialogo a tutti i livelli, da quello ufficiale sotto la mediazione del Gruppo di Minsk dell’OSCE a quello, ugualmente essenziale, della società civile.
(Ri)costruire il dialogo tra le società civili
Nel contesto attuale, il bilancio degli sforzi fatti finora per instaurare un dialogo tra le società civili dei paesi coinvolti nel conflitto appare negativo e deve far riflettere. Ad esempio, l’Unione europea ha finanziato nel corso degli ultimi dieci anni tre fasi del “Partenariato Europeo per la Risoluzione Pacifica del Conflitto del Nagorno-Karabakh” (EPNK), nonché il cosiddetto “Processo di Normalizzazione tra Armenia e Turchia“. Questi progetti hanno cercato di creare scambi e legami tra giovani, studenti, ricercatori e attivisti provenienti da Armenia, Nagorno-Karabakh e Azerbaigian, ma anche da Armenia e Turchia, per “contribuire alla pace duratura” nella regione.
Soprattutto nel caso dell’EPNK, queste iniziative hanno dovuto fare i conti con tutta una serie di difficoltà strutturali e logistiche, che non sono state affrontate in maniera adeguata: l’isolamento tra Armenia e Azerbaigian, l’impossibilità per i partecipanti di visitare il paese dell’”altro”, hanno fatto sì che gli scambi coinvolgessero solo piccoli gruppi costretti a riunirsi in un paese terzo (solitamente, la Georgia). Inoltre, da entrambe le parti coloro che partecipavano a tali progetti andavano incontro a grossi rischi per la propria reputazione, trovando difficile giustificare alle proprie famiglie o ai propri amici perché fossero interessati ad un dialogo con il “nemico”, in un contesto in cui l’odio reciproco è profondamente radicato nell’opinione pubblica.
Come ha spiegato l’attivista azero Bahruz Samadov in un recente articolo, in Azerbaigian tali iniziative sono sempre state “invisibili”, coinvolgendo solo particolari gruppi di giovani progressisti, di mentalità aperta e che parlano inglese, senza riuscire a toccare un pubblico più vasto. Il contesto autoritario e la repressione attuata nei confronti della società civile nel paese hanno ulteriormente contribuito a svuotare di contenuti politici e proposte concrete l’agenda di questi progetti. Questi elementi, uniti alla mancanza di volontà politica da parte delle istituzioni europee per far funzionare questo dialogo e giocare un ruolo più rilevante anche sul piano dei negoziati ufficiali, hanno generato il fallimento a cui assistiamo ora.
Sui social media ameni e azeri, la retorica nazionalista, il discorso di odio e la disumanizzazione del “nemico” crescono col passare dei giorni. Le voci che rifiutano queste posizioni sono poche e poco udibili, ma esistono. Ad esempio, la piattaforma pan-caucasica CaucasusTalks ha rilasciato una dichiarazione pacifista, che è possibile [ firmare qui ] in cui si legge:
“La guerra non risolverà mai il conflitto. Semplicemente ci lascerà in un circolo ancora più vizioso e oscuro di ostilità durature e torti non sanati. Difendere la pace non è una posizione neutrale. Rifiutiamo le posizioni militariste vincolate dalle narrazioni di guerra, e cerchiamo invece dei sentieri per costruire la pace“.
Nel giro di soli tre giorni, l’appello ha già raccolto svariate centinaia di firme dalla regione caucasica e da altre parti del mondo. Purtroppo, i cittadini azeri che hanno firmato l’appello hanno già ricevuto delle gravi minacce sui social media, a conferma di quanto siano coraggiose, e al contempo pericolose e fragili, queste prese di posizione.
Fonte: East Journal
photo credit: AFP