“Signora come si protegge dal caldo?”. È la domanda dell’estate, di ogni estate: lo scenario è sempre lo stesso: angoli di piazze delle principali città italiane, possibilmente vicino a fontane o a rubinetti sparsi in cui trovare un fresco e veloce ristoro per viso e collo. I protagonisti sono anziani sulle panchine e persone intervistate a campione durante lo shopping o durante una sosta breve. Ma perché questa domanda si rivolge sempre a coloro che, in un modo o nell’altro, il caldo lo possono sopportare, lo possono arginare, invece che andare dove, sotto qualunque condizione climatica, si continua a lavorare, a raccogliere, perché il carico deve partire, perché il carico non deve tardare, perché le pance vanno riempite e le tavole imbandite.
Già, vanno riempite, ma a quale prezzo? Al prezzo delle vite di chi da quel caldo non si può proteggere e non si può riparare, di chi sotto quel caldo muore, anzi, viene ucciso. Perché ogni lavoratore morto per le condizioni di lavoro disumane a cui è sottoposto vivendo in un sottomondo parallelo di miseria, di violenza e di perdita della dignità, è un lavoratore ucciso da un sistema produttivo ingiusto di cui abbiamo una responsabilità collettiva.
Camara Fantamadi aveva 27 anni, veniva dal Mali. Come riporta Repubblica, aveva zappato per quattro ore, prima di salire sulla sua bici e percorrere la strada provinciale Brindisi-Tuturano, dove un malore ha stroncato la sua giovane vita. Era arrivato a Brindisi da soli tre giorni, partendo da Eboli, riporta il quotidiano. Dopo la morte del giovane, per il cui rientro è scattata una gara di solidarietà che ci fa domandare perché debba sempre scapparci il morto per smuovere le coscienze, il sindaco di Brindisi, Riccardo Rossi, ha firmato un’ordinanza per vietare ogni lavoro nei campi sino alla fine di agosto, dalle 12.30 alle 16, e nelle giornate di caldo eccessivo, ordinanza estesa a tutta la Puglia dal governatore Michele Emiliano.
La difficoltà del nostro sistema economico nel comprendere che i lavoratori dal basso, come Camada (che è solo uno dei tanti di una triste e lunga serie), e come tutti i braccianti, sostengono la nostra quotidianità alimentare, nel comprendere che solo tutelando gli anelli più deboli del ciclo produttivo si può riconoscere la vera civiltà e la vera solidità di un Paese, e creare una reale ricchezza, fatta di occupazione, di risorse, e di un’equa distribuzione del benessere, beh, tale difficoltà è disarmante. Per ogni bracciante regolarizzato, ci sarebbe una casa occupata in locazione, e più avanti magari di proprietà, una famiglia che cresce, un bambino che andrebbe a scuola senza sentire la discriminazione della miseria che ferisce e si aggiunge a quella per il colore della pelle; ci sarebbero dei componenti di un nucleo famigliare che acquistano, risparmiano, consumano a loro volta…Eppure, nemmeno in un’ottica di contribuzione economica si accetta la regolarizzazione del lavoratore sottopagato, perché l’arricchimento veloce nelle mani di pochi ha più potere dell’arricchimento meno accentrato, magari più lento, ma nelle mani di tanti.
Faccio un appello ai redattori, ai direttori di testata, agli editori. Occupiamoci delle nuove forme di schiavitù che attraversano l’Italia. Facciamoci sentire, e non solo dopo un fatto di cronaca, ogni giorno, fino a quando non diventerà coscienza collettiva occuparci di chi assicura la “freschezza” sulle nostre tavole a costo della propria libertà e a volte della propria stessa vita.
foto unsplash Tim Foster