Giulio Gasperini
L’ascensore di Prijedor | Autore: Darko Cvijetic | Traduttore: Elisa Copetti | Editore: Bottega Errante Edizioni | Anno di edizione: 2021 | Isbn/EAN: 9791280219169
AOSTA – Un condominio come contenitore di tutte le storie del mondo: ecco la potenza del nuovo romanzo di Darko Cvijetić, L’ascensore di Prijedor, edito da Bottega Errante Edizioni nella collana Estensioni con la traduzione di Elisa Copetti. Due palazzi gemelli, popolati da una varia umanità, sulla cui pelle e nei cui occhi scorrono le immagini di una guerra che, da un giorno all’altro, crea nemici là dove c’erano soltanto vicini di pianerottolo, e frammenta la società, di cui le famiglie del condominio sono specchio e rappresentazione calzante.
Prijedor è una città abbandonata sulla carta geografica, che poco dice a noi abitanti di altrove. Ma è stato il luogo che, dopo Srebrenica, ha più patito le conseguenze di questo insensato conflitto interetnico. Rimasta nella Repubblica Srpska, dopo gli accordi di Dayton del 1995, era abituata a essere terra di accoglienza e di convivenza pacifica: non si badava all’etnia, alla religione, ai tratti somatici; si viveva in condivisione e pace. Poi, la guerra ha rivoluzionato tutto, e Cvijetić è abilissimo nel condurci in questa accelerazione vorticosa di sospetto e violenza. I pianerottoli, da luoghi di incontri, di scambio e di gentilezze, diventano vere e proprie linee di guerra, avamposti di eserciti, trincee nelle quali si consuma il dramma di una ferocia senza senso né ragione.
I personaggi del romanzo, che Cvijetić nomina uno per uno, riconoscendo la dignità del riconoscimento in un contesto che infieriva anche suoi corpi e li abbandonava all’anonimato delle fosse comuni, diventano exempla quasi danteschi, portatori di sensi e significati ben oltre le loro stesse carne e ossa. Le storie narrate, essenziali e quasi scarnificate da ogni orpello e dettaglio inutili, sono concentrati di sentimenti e moti dell’animo: la loro finalità è quella di commuovere, nel senso etimologico del termine, ovvero di “mettere in moto”, di “agitare” affinché l’epilogo non rimanga un semplice elemento di cronaca ma sia scandalo, pietra d’inciampo per ripensare il passato e farne strumento di un nuovo futuro, consapevole di quello che la violenza etnica può causare, innestare e innescare. Ogni personaggio, che incontriamo in questo palcoscenico ristretto ma privilegiato, può essere chiunque si incontri ogni giorno, per strada: la folle accelerazione di quella violenza, così vicina ma così rifiutata e rinnegata, può accadere in ogni momento. Sembrano guardarci dritti negli occhi, quegli uomini e quelle donne dei condomini di Prijedor, e sembrano sfidarci a sentirci al sicuro e innocenti nella nostra strumentale omertà.
Cvijetić racconta e racconta, non smette, per far in modo che il ricordo perduri, che resista, che sopravviva alla cancellazione, alla rimozione, alla negazione, al revisionismo: tutto fa paura quando i testimoni vengono a mancare e la storia si assottiglia, si riduce, si sfilaccia. Cosa può rimanere, quando gli occhi si spengono? Le parole, pare dirci Cvijetić, le parole possono rimanere e tutte le storie, tutte le narrazioni che hanno intrecciato e plasmato.