Shooting in Sarajevo | Autore: Luigi Ottani | Curatore: Roberta Biagiarelli | Editore: Bottega Errante | Collana: Obiettivo | Anno edizione: 2020 | Isbn / EAN: 9788899368951
AOSTA – Dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996 durò l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia contemporanea: 1425 giorni, più di quanti ne possa ipotizzare un attuale lockdown. 11.541 cittadini e cittadine sarajevesi uccisi, di cui circa 1.600 giovani e bambini: un indiscutibile atto di genocidio, un crimine contro l’umanità al centro della ricerca fotografica di Luigi Ottani, nel magnifico libro “Shooting in Sarajevo”, realizzato a cura di Roberta Biagiarelli ed edito da Bottega Errante Edizioni.
Sul doppio significato di “shooting”, ovvero sia “sparare” che “fotografare”, si gioca il senso e il significato di questo splendido volume, arricchito da testi e testimonianze di chi, quell’assedio, lo visse e lo conobbe. Luigi Ottani ha ricercato e fisicamente occupato le postazioni dalle quali i cecchini spararono sulla popolazione di Sarajevo per quei lunghi giorni criminali e ha provato la sensazione di guardare, attraverso un obiettivo, la vita contemporanea della città: il risultato sono le foto di questo volume, che squarciano il nostro imbarazzato silenzio e ci mettono nei panni dell’altro, di chi, in quei giorni di omertà e indifferenza, prese di mira cittadine e cittadini innocenti, senza colpa, attuando una criminale guerra non solo fisica ma anche psicologica. Sì, perché il compito del cecchino era spiare la quotidianità delle famiglie, dei singoli; seguirli, conoscerli e poi ucciderli o, ancor meglio, ferirli per fare in modo che altre persone si avvicinassero ad aiutare e aumentassero le vittime. Fu così che si distrusse anche il senso di collettività, il nobile intento della cura e dell’aiuto: nel trascorrere dei giorni, chi veniva ferito rimaneva abbandonato a sé stesso, sull’asfalto delle strade o suoi ponti che univano le rive della Miljacka.
Nelle narrazioni, preziose, di Jovan Divjak, Azra Nuhefendić, Gigi Riva, Mario Boccia, Carlo Saletti si ricostruisce una storia agghiacciante e raccapricciante, che accadde di fronte agli occhi, distolti altrove, di tutto l’occidente. Gli abitanti di Sarajevo erano vulnerabili, completamente; esposti ai mirini, alle pallottole, a un destino furioso che non colpì soltanto lungo quella che fu poi ribattezzata Sniper Alley, il Viale dei Cecchini, ma anche nelle case, dietro le finestre, nei cortili dei giochi, negli incroci che si dovevano attraversare per fare in modo che la vita, in qualche modo, continuasse ancora.
Come fu vivere in assedio per 1.425 giorni? Difficile trovare una risposta a questa domanda, anche andando a chiedere notizie ai sopravvissuti di quest’esperienza. Alcune persone hanno scoperto di aver abitato in appartamenti utilizzati dai cecchini, negli stessi spazi dove si svolgeva la loro vita, soldati e mercenari, addirittura persone che nel fine settimana accorrevano a Sarajevo per dedicarsi alla caccia-all’essere-umano, stazionavano e colpivano chiunque passasse distrattamente, fino a più di un chilometro di distanza. Come fu possibile tutto questo?
Ci siamo completamente persi i nomi delle vittime: conosciamo solo le prime (la studentessa Suada Dilberović e la giovane madre Olga Sučić, freddate sul ponte che oggi porta il loro nome), ma poi la contabilità divenne così alta – unendosi alle vittime delle granate, testimoniate ancora oggi dalle Rose di Sarajevo, sull’asfalto delle strade – che fu impossibile conservarne memoria. La stessa procedura di eliminazione fu strumento di spersonalizzazione delle vittime: da lontano, lontanissimo, divenne procedura automatica mirare, preme il grilletto e tornare a guardare altrove, dopo aver contemplato con soddisfazione feroce l’atto assassino.
Un libro necessario, questo “Shooting in Sarajevo”, oggi più che mai: perché cala il nostro occhio nella prospettiva del carnefice, sovrapponendosi alla vita della vittima; un doppio sguardo che potrebbe servire – come anticorpo potentissimo – a farci riprendere confidenza con l’umanità e con la necessità indifferibile di tutelare la vita, il diritto alla libertà, disinnescando la narrazione perversa e virulenta secondo la quale alcuni posseggono un diritto alla vita differente e finanche prioritario rispetto ad altri. Ognuno di noi, in definitiva, è sempre “altro” per qualcuno, di vicino o lontano.