Diciannove militari australiani accusati di crimini di guerra, durante le operazioni in Afghanistan; una foto, diffusa dal Guardian, che definire cruenta è altamente riduttivo, e un rapporto, redatto dal giudice militare Paul Brereton, le cui conclusioni sono state diffuse il diciotto di novembre, aprendo una pagina di storia che rivela gratuite atrocità: riti di iniziazione, vere e proprie gare tra pattuglie, torture e violenze perpetrate tra il 2005 e il 2014.
Quattro anni di indagini, tardive rispetto ai fatti denunciati dalla Commissione indipendente afgana sui diritti umani, dal Comitato internazionale della Croce Rossa e da alcuni leader locali, a cui non venne data importanza, declassandoli a propaganda taliban. Trentanove le persone uccise, tra civili e prigionieri afgani, senza considerare gli abusi, fino ad arrivare a ben trentasei presunti crimini di guerra commessi in ventitré episodi. Le denunce sarebbero molte di più, ma in alcuni casi le prove raccolte non sarebbero sufficienti. Non sono mancate le scuse ai famigliari delle vittime e al popolo afgano, da parte del capo delle forze di difesa australiane, ma lo scandalo che ha investito il reggimento del Sas (Servizio aereo speciale) rivela accuse sempre più pesanti.
Si parla di ordini impartiti al rango inferiore, da parte dei comandanti del Sas – ritenuti semidio – per compiere il rituale della “prima uccisione” e di afgani uccisi solo per aumentare il numero dei morti in quella che viene definita “una disgustosa competizione tra pattuglie”. Nel quadro descritto nella relazione, una certezza: nessuno degli episodi è stato compiuto durante dei combattimenti. Risulterebbero assenti anche i rapporti degli omicidi. Particolarmente esplicative le parole del professor Whetham: “C’è una differenza enorme e fondamentale tra premere il grilletto per sbaglio in un momento concitato in cui si sta cercando comunque di fare la cosa giusta e prendere un prigioniero ammanettato e ucciderlo a sangue freddo”. Nemmeno donne e bambini sono stati risparmiati, per cui “scappare era diventata una condanna a morte”.
Comandanti di pattuglia che omettevano i comportamenti criminali, armi lasciate addosso alle vittime per “esibire delle prove che giustificassero la detenzione”, rapporti “ritoccati”, e una informazione che, se da un lato fa ben sperare, dall’altra instilla il dubbio di quanti casi, in altri paesi e contesti, possano rimanere silenti: “l’Australia ha il merito di aver indagato sul suo esercito, primo paese ad averlo fatto tra i suoi alleati”.
(fonte The Saturday Paper)
foto Ye Jinghan