Aldilà di quella recinzione ferrata, gli occhi che guardano da questa parte, dalla nostra parte. Le gambe di un bambino con uno zainetto rosso sulle spalle, le sue gambe che tremano quando le raffiche di vento si riempiono di pioggia. Un uomo in piedi con una coperta sulle spalle, perché un telo agitato dal vento non basta a farti sentire protetto. Una barca che non ha l’abito buono, ma il buono dentro. E noi, dall’altra parte della barricata, giornalisti, persone comuni, odiatori, spettatori di vite che a loro volta diventano spettatrici della nostra presenza.
Siamo al porto industriale di Olbia, dove venerdì mattina è sbarcata la nave Alan Kurdi, con a bordo circa centoventicinque migranti di cui oltre cinquanta minori provenienti dalla Libia. Il peggioramento delle condizioni meteo ha deviato il corso della loro rotta, portandoli a chiedere riparo prima presso il porto di Arbatax, poi al porto di Olbia. Dalla serata di giovedì, poco dopo la diffusione della notizia da parte della stampa, la rabbia dei leoni da tastiera ha invaso i social. Una rabbia che ha radici nella frustrazione, nella paura, nei sentimenti di insoddisfazione con cui bisogna fare i conti, ma avere anche il coraggio di volerlo fare e di saperlo fare. Non voglio raccontarvi di un uomo in abito e blu e mocassini che si è seduto così ridicolmente “per impedir lo sbarco”. Non voglio raccontarvi del suo tempo trascorso a fare dirette, a parlare di noi sardi, lui che la Sardegna non sa cosa sia e cosa significhi esserne natio, lui, così lontano da sembrare davvero straniero.
Non voglio parlarvi delle parole d’odio, non voglio parlarvi degli uomini che si sono spostati perché “puzzavamo”, di un puzzo pericoloso che può portare dentro le loro vita l’odore di umanità. Non voglio parlarvi di un Olbia “dis-accogliente”. Perché non sarebbe giusto, e non sarebbe vero. Voglio parlarvi piuttosto di quanto sia stato importante esserci, per ricongiungere le immagini dei tg e dei media con gli sguardi di chi è spaesato, di chi è affidato, di chi non è atteso, ma attende da una vita una possibilità. Voglio parlarvi di una donna, di Olbia, che ha portato i suoi due bambini a trascorrere la giornata davanti alla Alan Kurdi. Si è preoccupata, ci dice, quando un giorno suo figlio è tornato da scuola e lei ha capito che stava dicendo delle frasi non sue, frutto di una contaminazione che poteva diventare seme per cose non buone.
“Volevo che vedessero con i loro occhi chi sono le persone di cui sentono tanto parlare, è troppo importante che capiscano che quello che sentono non corrisponde alla verità”. Mi fa vedere dei giocattoli, sanificati e portati in dono. Quando i suoi figli avevano freddo o iniziavano a sentire fame, ha fatto notare loro quella possibilità di mangiare quando desideravano, di coprirsi dal freddo, mostrandogli chi, con le stesse necessità, poteva solo sopportare e aspettare. Li vedete nella foto gli occhi della curiosità buona scritta nei cartelli, preparati con le loro mani, per curare un seme che non deve germogliare odio.
Voglio raccontarvi di due ragazze Nadia e Giada, del teatro NYX, arrivate con il loro furgoncino arancione per essere lì e esserci con la presenza delle emozioni: “L’accoglienza è una forma di conoscenza” – ci dicono – “Prima o poi nella vita, tutti ci sentiamo un po’ stranieri”. Una intervista fatta perché hanno visto che ero senza riparo in quel momento di pioggia e senza conoscermi, mi hanno fatto salire sulla loro casa a colori dove hanno concluso dicendo che “Accogliere è far trovare un’apertura”. Voglio raccontarvi degli operatori sanitari e i volontari che hanno lavorato schermati da qualunque insulto e da qualunque condizione metereologica avversa. Voglio raccontarvi delle forze dell’ordine che sono state solidali con chi è stato offeso dai signori dell’odio facile, pret a porter, che per tutto il tempo hanno offeso chi non fosse d’accordo con loro, hanno fatto versi di animali, hanno detto frasi senza fondamento affermando che fossero leggi; signori che hanno cercato di far reagire i presenti per l’intera mattinata, ma sono stati ignorati fino a dileguarsi nel corso della giornata.
Voglio parlarvi dei giornalisti presenti, tutti d’accordo che quegli insulti non fossero Olbia, non fossero Sardegna, non fossero umani. Voglio parlarvi di Stefano, Ludovica, Giuseppe, che hanno fatto fatica a stare calmi perché con i loro tatuaggi, i capelli lunghi e addirittura un camper, erano già un’etichetta troppo riconoscibile per gli odiatori che lentamente sono diventati piccoli piccoli fino a scomparire, perché le pance vanno riempite e il pranzo e la cena non si saltano mai. Voglio parlarvi di Ivana, Gianluca, Gian Piero, arrivati nel pomeriggio, per fare la loro parte e rimasti fino a notte fonda.
Voglio parlarvi di altri presenti, che sono andati e tornati, non conosco i loro nomi, ma so di aver visto la loro commozione quando le donne e i bambini ci sono passati davanti, con i loro piedi scalzi, le loro coperte usate come protezione, gli sguardi che bucano nel profondo per ricordare la Storia, non le pagine di un libro, ma la Storia degli interessi economici che ha reso loro ciò che sono e noi ciò che siamo diventati.
Voglio raccontarvi dei saluti dell’equipaggio ai migranti scesi per essere ospitati nella struttura allestita a poche centinaia di metri, saluti semplici che ti fanno sorridere il cuore. E voglio terminare con l’immagine di due medici o forse infermieri – la distanza, il buio e il bianco delle loro tute non ci ha permesso di capire altro – che tra un controllo e l’altro hanno scherzato e riso facendo un breve sketch, divertendosi con dei movimenti improvvisati. Ho voluto raccontarvi del peso leggero dell’amore, che non schiaccia, non lede, non ingombra e non offusca, ma è presente, e conta. Grazie Olbia e grazie Alan Kurdi.