Quante volte è stato paragonato a un luogo senza ritorno, quante volte gli operatori umanitari hanno lanciato appelli. Quanti racconti strazianti abbiamo letto sulle condizioni fisiche e psicologiche dei bambini di Moria, quante immagini sono passate davanti ai nostri occhi per allarmare sulla situazione del campo profughi nell’isola di Lesbo, oramai ridotto in cenere. Non sono serviti i reportage, gli articoli dettagliati, le notizie con i dati sul sovraffollamento di uno spazio che ha fallito nel suo compito più importante: quello di fornire protezione.
E alla fine è avvenuto. Un incendio nella notte e in circostanze sconosciute: “Abbiamo visto il fuoco divampare su Moria. Tutto il campo era inghiottito dalle fiamme, c’era un esodo di persone in fuga senza alcuna direzione. Bambini spaventati e genitori sotto shock. Ora stiamo lavorando per dare loro assistenza”. Le parole sono quelle di Marco Sandrone, capo progetto MSF a Moria. Testimonianze minuto per minuto, che hanno scandito il ritmo di una tragedia nella tragedia, dove il senso del tempo si era perso ancora prima del rogo, ma dove qualcosa si è salvato:
“La situazione è indescrivibile. Spesso abbiamo detto che Moria sembrava un inferno per gli abusi e i diritti negati. Con più di metà del campo ridotto in cenere, oggi Moria non sembra un inferno, lo è. Quando sono arrivata alle prime luci dell’alba, le fiamme erano altissime. È impensabile che questo avvenga in un centro d’accoglienza in Europa. La nostra clinica si è miracolosamente salvata dal fuoco. Siamo qui con un team d’emergenza per garantire cure alle persone ancora rimaste nel campo e per cercare di raggiungere gli altri che sono fuggiti e ora dislocati tra il campo e la città di Mitilene dove non possono entrare. Alcuni stanno provando a mettersi in contatto con noi, molti sono nostri pazienti della clinica, tra loro donne incinte e bambini malati che hanno bisogno di assistenza” ha affermato Giovanna Scaccabarozzi, referente medico MSF a Moria.
Il dolore, la preoccupazione, la gestione dell’emergenza, anzi delle emergenze, che tuttavia lasciano lentamente spazio alla rabbia: “L’Unione Europea ha declinato la propria responsabilità e non ha fatto quasi nulla per risolvere la situazione nel campo di Moria. Anni di sofferenza e violenze causati dalle politiche migratorie europee e greche sono la causa di questo incendio. Possiamo solo sperare che lo stesso disumano sistema di contenimento non rinascerà dalle ceneri di Moria”. Aurelie Ponthieu, responsabile affari umanitari di MSF . Una denuncia a cui si sono uniti i principali attori nel campo umanitario, a seguito dell’incendio avvenuto nella notte tra l’8 e il 9 settembre, che ha investito gli oltre 12.000 residenti del campo profughi di Moria.
Uomini, donne, bambini, che rivolgono la stessa, agghiacciante domanda “Che ne sarà di noi?”. La ricostruzione non è ben vista, nessuno dimentica e nessuno dimentichi che nell’Isola greca si è raggiunta una capienza sei volte superiore a quella prevista, tanto da far apparire riduttivo il significato del termine sovraffollamento. E pensare che quando il campo profughi venne concepito, nel 2015, si era pensato a un luogo di passaggio, giusto pochi giorni per l’identificazione prima del trasferimento sulla terraferma, nei vari paesi europei.
Mentre cadono nel vuoto parole come “pacchetti di aiuto” e appare come “soluzione tampone” la divisione di 400 minori assegnati a Francia e Germania, le donne di Moria hanno fatto sentire la loro voce marciando per le strade di Lesbo. Una giovane mamma con in braccio il suo bambino ha lasciato intuire le mille difficoltà, tra cui la paura di nuove violenze: “dice di avere paura degli agenti” – riporta Euronews – “Preferisce dormire per strada. Chiedono libertà ma anche di non essere maltrattati”. Già, perché mentre la politica spartisce numeri e persone, la vita dei profughi di Moria, satura di abusi e violenze, prosegue la triste conta dei traumi fisici e psicologici. Vite senza direzione, eppure in viaggio per trovarla una direzione.