Si torna in campo per i playoff, dopo i tre giorni di protesta contro il ferimento da parte della polizia di Jacob Blake, colpito da sette proiettili e rimasto paralizzato. In un comunicato congiunto di Nba e Nbpa, l’associazione giocatori, hanno chiarito che la protesta proseguirà e indicato le prossime tappe, fatte di numerose azioni concrete: la creazione di un comitato, composto da rappresentanti di giocatori, allenatori e proprietari, per favorire la giustizia sociale, promuovere responsabilità civica e riforme al sistema criminale e di polizia; realizzazione di spot, da mandare in onda durante le partite dei playoff, che promuovano l’impegno civico nelle elezioni nazionali e locali; creazione di una fondazione Nba per lo sviluppo di progetti per il miglioramento economico di soggetti svantaggiati.
L’Nba non solo ha sposato il Black Lives Matter, ne è diventato un suo motore, grazie alla compatta partecipazione dei giocatori, non solo attraverso i social. Dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, molti giocatori avevano già manifestato un forte dissenso contro un presidente accusato di razzismo e di legami con esponenti del suprematismo bianco. Nel 2017 Steph Curry, capitano dei Golden State Warriors ha rinunciato all’annuale visita alla Casa Bianca dei campioni NBA in carica e LeBron James ha definito Trump “straccione” e dichiarato “Venire alla Casa Bianca è sempre stato un onore, almeno fino a quando sei arrivato tu”.
Ma prima che i giocatori dell’Nba virassero in maniera così decisa verso temi politici, come l’antirazzismo e la giustizia sociale, c’è voluto parecchio tempo e qualche sacrificio professionale. Sembrano lontanissimi i tempi delle proteste pacate e solitarie di Craig Hodges, di cui abbiamo parlato qualche tempo fa, suo contemporaneo è Mahmoud Abdul-Rauf, nato Chris Wayne Jackson.
14 marzo del 1996, a Washington sta per iniziare il match tra i Bullets, padroni di casa, e i Denver Nuggets. Durante il consueto momento dell’inno nazionale, il playmaker, nonché top scorer e miglior assistman della squadra ospite, Mahmoud Abdul-Rauf, resta seduto in panchina, senza alzarsi e rivolgersi alla bandiera. A fine partita, dichiarerà: “Non intendo mostrare rispetto a un simbolo di oppressione e tirannia come la bandiera degli Stati Uniti”.
La polemica che ne segue è molto forte e lo travolge professionalmente. La Lega decide di multarlo e sospenderlo a tempo indeterminato, determinando l’inizio della fine della sua carriera.
Nato col nome di Chris Wayne Jackson, cresciuto senza padre in una poverissima famiglia del Mississippi, è affetto da una forma di Sindrome di Tourette che gli provoca violenti spasmi muscolari e disturbi psicologici. Il basket diventa la sua terapia, inizia a sottoporsi a degli allenamenti durissimi alla ricerca della perfezione. Al Liceo e in NCAA, dove è anche in squadra con Shaqille O’Neal, è considerato un fenomeno. Farà subito il salto in Nba, scelto dai Denver Nuggets.
Nel 1991 si converte all’islam e due anni dopo cambia legalmente il suo nome in Mahmoud Abdul-Rauf (“elegante ed encomiabile servitore di Allah misericordioso e gentile”).
Nel 1996, la sua carriera è in grande ascesa, e Mahmoud non intende rinunciare né ai suoi principi né al basket, così raggiunge un compromesso con la Lega, resterà in piedi durante l’esecuzione dell’inno, ma potrà pregare a occhi chiusi.
Non basta, già qualcosa stava andando storto dalla sua conversione all’islam, una sorta di isolamento, fatto di strani trasferimenti, minutaggi bassi e difficoltà a trovare dei buoni contratti. Questa strana situazione lo porta addirittura alla decisione di ritirarsi e tornare in Mississippi per dedicarsi alla famiglia e al lavoro di volontariato nella sua comunità. Un nuovo evento, però, sconvolgerà la sua vita nel 2001, alcuni esponenti del Klu Klux Klan, mai identificati, danno fuoco alla sua abitazione. Decide di abbandonare il Missisipi e sente sempre più forte il richiamo del basket e, pur di giocare, a 35 anni, dopo due anni d’inattività, si trasferisce prima in Russia all’Ural Great Perm e nel 2004 a Roseto in Abruzzo, incantando col suo basket ancora superlativo e portando la squadra ai playoff. Chiude la carriera in Giappone, a 40 anni suonati, top scorer dei Kyoto Hannaryz, squadra allenata dall’ex-ala degli Utah Jazz, David Benoit.
“Quando sentivo l’inno cominciai a chiedermi: perché devo stare in piedi? Non voglio essere un robot, che fa quello che altre persone gli dicono di fare. Cominciai a pormi delle domande: perché lo faccio? È giusto farlo? Giunsi alla conclusione che no, non era la cosa giusta da fare. Ero in disaccordo e arrabbiato su troppi argomenti per far finta di niente. Ecco perché ho fatto quel che ho fatto”.
Impegno, coerenza, onestà e fedeltà ai valori. Questo ci insegna la storia di Mahmoud Abdul-Rauf, nato Chris Wayne Jackson, che ha sacrificato la sua carriera per combattere quelle battaglie che l’Nba ha finalmente fatto proprie dopo troppi anni di silenzio.
Giovanni D’Errico