La serie Netflix più vista in Italia nel 2020 è stata “The Last Dance”, documentario che racconta la leggendaria carriera dei Chicago Bulls di Michael Jordan, in particolare la stagione 1997-98, quella del sesto e ultimo titolo vinto. Durante la messa in onda della serie, nel corso di un normale arresto, trasformatosi in brutale omicidio, è morto George Floyd, il 25 maggio, nella città di Minneapolis. Le proteste per la sua morte hanno nuovamente rinvigorito il Black Lives Matter, movimento fondato il 13 luglio 2013, impegnato nella lotta contro il razzismo verso le persone nere.
Oggi, 30 luglio 2020, ricomincia l’NBA con i playoff che si giocheranno nella “bolla” a Disney World in Florida e c’è un personaggio che merita di essere ricordato, perché ha avuto a che fare con basket, razzismo, attivismo politico e, in tempi non sospetti, ha lottato, denunciando la condizione dei neri negli USA, con grande garbo, forza e intelligenza.
Nel 1991, a inizio marzo Rodney King, un nero di 28 anni, fu selvaggiamente picchiato da quattro poliziotti bianchi a Los Angeles. La loro assoluzione, mesi dopo, causò sei giorni di rivolte in tutta l’area metropolitana di Los Angeles, durante i quali furono uccise 63 persone, vi furono 2.383 feriti e più di 12.000 arresti.
Il giorno prima dell’inizio delle finali tra Los Angeles Lakers e Chicago Bulls, Craig Hodges compagno di squadra di Michael Jordan, propose a lui e a Magic Johnson, stella dei Lakers, di rinviare la partita per dare un forte segnale contro il razzismo. Ricevette un secco rifiuto.
Hodges, amico di Louis Farrakhan – il leader della Nation of Islam, aveva già provato a convincere MJ a rompere il contratto con la Nike per fondare una sua azienda di scarpe sportive attraverso cui avrebbe potuto aiutare le comunità nere.
E, sempre lui, aveva proposto a tutti i suoi compagni di destinare, come faceva normalmente lui, una parte dei loro guadagni ai quartieri neri più poveri, senza avere neanche una sola risposta positiva.
Il 1 ottobre del 1991, il presidente degli Stati Uniti George Bush invitò alla Casa Bianca i Chicago Bulls, la squadra campione NBA. Jordan non si presentò, preferendo andare a giovare a golf, si presentò, invece, un uomo con un dashiki, una tunica originaria dell’Africa occidentale, un copricapo bianco e delle scarpe basse bianche. Davanti all’imbarazzo di George W. Bush, figlio del presidente, che si comportava come se il ragazzo non fosse americano nè capisse l’inglese, Phil Jackson, allenatore dei Bulls, intervenne a precisare che si trattava di Craig Hodges, miglior tiratore della squadra, invitandolo a mostrare la sua abilità sul campo della Casa Bianca. Hodges segnò nove tiri da tre punti di seguito.
La cosa più importante fu, però, che Hodges consegnò al presidente una lettera, scritta di suo pugno, nella quale c’era un appello a migliorare le condizioni di vita dei neri.
Come discendente di schiavi, sento la responsabilità di parlare per conto di quelli che non riescono a farsi sentire. Negli Stati Uniti c’è una parte della popolazione che è una specie in via di estinzione. Sono i giovani maschi neri. I quartieri neri sono in uno stato d’emergenza a causa della violenza, le droghe e la mancanza di lavoro. I cittadini di questa grande nazione devono scegliere da quale lato della storia schierarsi in questo momento decisivo.
Mesi dopo, Hodges ebbe ancora l’ardire di criticare apertamente Micheal Jordan per non aver preso alcuna posizione sulla vicenda di Rodney King. E dopo la vittoria del secondo titolo consecutivo, nel 1992, a Hodges non fu rinnovato il contratto, né lui riuscì a trovare una squadra in NBA disposta a proporgli un ingaggio, nonostante fosse uno dei migliori tiratori in circolazione, tre volte vincitore della gara del tiro da tre punti durante l’All Star Game.
Probabilmente fu vittima di un complotto ad opera di Jordan e del suo agente David Falk.
La cosa curiosa, o è forse un indizio, Craig Hodges non è nominato una sola volta in The Last Dance.
Oggi allena la squadra del liceo Rich East di Park Forest, vicino a Chicago, e ha raccontato la sua storia in un libro del 2017, dal significativo titolo, Long Shot: The Triumphs and Struggles of an NBA Freedom Fighter.