Rifugiati climatici. Senza status, ma sempre in aumento

L’ambiente non è una causa di persecuzione: lo dice la Convenzione di Ginevra del 1951, e lo ribadisce l’Unhcr che disapprova il termine di “rifugiato climatico” e il conseguente status. Viene invece accettata la definizione di “persone sfollate nel contesto di disastri e cambiamenti climatici”. Cicloni, tempeste, siccità, inondazioni, sono solo alcune delle cause che hanno portato 17.2 milioni di persone ad abbandonare le proprie case (dati Internal Displacement Monitoring Centre – 2018).

Significativa la storia di un uomo, Ionane Teitiota, che, insieme alla sua famiglia, ha preso una decisione non facile. Costretto a emigrare in Nuova Zelanda a causa dell’innalzamento del mare nell’arcipelago di Kiribati, conseguenza del surriscaldamento globale, ha scelto di difendere la propria condizione di migrante climatico. Avrebbe potuto presentare una regolare richiesta per un permesso di soggiorno – riporta Wired – invece ha lottato per vedere riconosciuto il proprio status di cittadino che ha dovuto migrare a causa delle conseguenze del cambiamento climatico.

Ionane non ha ottenuto lo status di migrante climatico, ma “il Comitato dell’Onu per i diritti umani ha riconosciuto il degrado ambientale e i cambiamenti climatici come una delle più gravi minacce al diritto alla vita per le generazioni presenti e future”.

La questione dei rifugiati ambientali viene rilevata con preoccupazione anche da Amnesty International, che fa una prima analisi già nel 2018, individuando tra le possibili azioni percorribili “un fondo mondiale di assistenza in caso di spostamenti a carattere ambientale” .

Quando si parla di persone che migrano a causa della perdita dei propri habitat, occorre inoltre considerare una serie di fattori concomitanti, come “l’urbanizzazione non regolata, l’inquinamento dei terreni agricoli e falde acquifere, lo sfruttamento minerario incontrollato per soddisfare la domanda dell’industria elettronica e non ultimi, i conflitti armati, che provocano una trasformazione irreversibile dei luoghi” (Nicola Colacino – www.unionedirittiumani.it).

Se è vero che nello status di rifugiato climatico è assente la condizione derivante dalla “persecuzione”, è pur vero che, con la sentenza sul caso Kiribati (gennaio 2020) si afferma un importante precedente secondo cui “Le persone in fuga da un pericolo immediato a causa della crisi climatica, i rifugiati climatici, non possono essere costrette a tornare a casa” (Views adopted by the Committee under article 5 (4) of the Optional Protocol, concerning communication No. 2728/2016). La stima dei numeri futuri è tutt’altro che incoraggiante: nel 2050 potrebbero essere ben 250 milioni le persone interessate da questo fenomeno (Intergovernmental Panel on Climate Change).

Elena Mascia

photo credit: Skeeze

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