Dimenticare l’origine dei prodotti, dimenticare la filiera, dimenticare il costo in termini di vite e impatto ambientale, dimenticare cosa voglia dire tenere sempre accesa la macchina dei macelli.
Ogni giorno, zero interruzioni, il banco frigo dei nostri iper e supermercati non deve restare vuoto, bandito il grigio e il bianco della superficie, il rosso acceso deve trionfare e al primo spazio vuoto un altro taglio, un’altra confezione. Ma quanto costa tenere attivo questo meccanismo infinito? E perché si parla così poco del costo in termini ambientali?
Partiamo dai numeri forniti: otto milioni gli animali uccisi ogni giorno in Italia. Lo ripeto perché i numeri spesso si lasciano cadere senza riflessione: otto milioni di animali solo nel nostro paese, che diventano mezzo miliardo nel mondo (Veg*anismo, dati e statistiche); carne proveniente per il 99 per cento da allevamenti intensivi come riporta animalequality.it.
Su scala nazionale inoltre, viene trattata con antibiotici venduti in Italia per il 71 per cento, tutto per essere certi che il rapporto domanda-offerta non resti deluso.
Vi chiedo di seguirmi in una breve rappresentazione che mi è venuta in mente qualche giorno fa, mentre mi trovavo davanti al banco frigo del mio supermercato di quartiere: provate a visualizzare 1 milione di animali l’ora, immaginate dove vivano, lo spazio che richiedono, il nutrimento inteso come mangimi, l’acqua e l’energia necessaria al loro sostentamento per morte certa. Ha preso corpo la vastità dell’impianto necessario? Riuscite anche solo minimamente a pensare una tale quantità di risorse? Io ho fatto fatica, e credo di non essere l’unica.
Il rapporto Fao parla chiaro: il 18 per cento delle emissioni di gas serra globali sono imputabili all’agricoltura animale, a cui va aggiunto l’inquinamento delle falde acquifere e dei corsi d’acqua, confermato dalle riprese aree e dai droni degli investigatori di animalequality.it, che con il loro lavoro sono riusciti a raccontare la verità su 741 macelli nel mondo. Parliamo di servizi realizzati sotto copertura, ad alto rischio, che servono a portare fuori dal cemento le storie di abusi, maltrattamenti, mutilazioni, tutte giustificate dal nostro quotidiano fabbisogno.
Fanno riflettere i dati ISPRA del 2016 forniti a Greenpeace: “gli allevamenti sono indicati come la seconda causa che contribuisce alle concentrazioni medie annuali a livello nazionale di particolato (15,1%), superiore a industria (11,1%) e veicoli leggeri (9%)”.
In parole povere, allevamenti che inquinano più di auto e moto. E così, mentre un articolo del due aprile dell’Huffingtonpost dichiara che “l’emergenza da Coronavirus è figlia anche dello squilibrio ambientale, dell’urbanizzazione selvaggia, della perdita di biodiversità, della deforestazione, degli allevamenti intensivi e dello scorretto rapporto uomo animale”, noi continuiamo a percorrere le corsie piene della nostra spesa quotidiana senza domandarci consapevolmente come nasca e come arrivi il prodotto che finisce sulle nostre tavole.
Basterebbe poco, basterebbe guardare dietro il banco frigo, porci delle domande e fare scelte consapevoli, perché se ogni giorno nel mondo vengono sprecate 220mila tonnellate all’anno di cibo (Il Manifesto) forse il necessario non è poi così strettamente tale.
Elena Mascia