Più o meno quindici anni fa, in vacanza in Francia, ingenuo e ancor giovane, fui attratto da un episodio: il TG della sera di uno dei canali nazionali era condotto, con un’ottima presenza scenica e indubbie capacità comunicative, da un giornalista di colore (all’epoca era il modo corretto per definirlo).
Fino a quel momento, esclusi gli sportivi, dei quali, è notorio, si guarda il colore della pelle solo se sono avversari, a me che muovevo i primi passi nel lavoro coi migranti, una tale mobilità sociale per una persona con evidenti antenati non gallici (né europei) risultava una grossa sorpresa. E mi chiedevo quando sarebbe potuta succedere la stessa cosa in Italia, paese in cui, anche se in ritardo, il cambiamento mi sembrava già in atto, lento ma inevitabile.
Ho poi scoperto che, in quegli anni, un TGR Rai vantava un conduttore di origini africane, poi politico di AN e la Destra di Storace, e la cosa, nonostante quest’ultimo bizzarro dettaglio, supportava la mia visione, o forse speranza, di cambiamento sociale.
Cos’è successo in quindici anni in Italia?
Siamo riusciti a costruire degli strumenti culturali per avere un rapporto sereno nei confronti della diversità? E’ oggi la nostra cultura così compatta da darci certezze comuni per poter gestire il costante aumento di popolazione migrante, senza che sia usato come strumento per generare paure e guadagnare consenso elettorale?
Se la seconda domanda è chiaramente retorica, sulla prima qualche parola la possiamo spendere, non prima di una puntualizzazione. Quando parlo di cultura intendo il termine nella sua totalità, a titolo esemplificativo e in ordine sparso: la Costituzione, la scuola (Buona o cattiva che sia), la moda, i Modá, i Marò, l’evasione fiscale, il ragù domenicale, il CNEL, Pertini, il caffè espresso e il bidet.
In questo particolare momento, archiviato il 2018 – storico anno del cambiamento, della politica trasferitasi quasi completamente sui social, le posizioni nei confronti degli stranieri sono sostanzialmente due, fortemente polarizzate e cristallizzate. Quelli che “accogliamo tutti”, che non riescono ad affrancarsi da quella voglia di restituire ciò si è preso col colonialismo, gli stessi che vorrebbero andare in Africa (e spesso lo fanno da turisti) o, peggio, salvare vite in mare su una nave di una ONG (pensando che abbia la stessa organizzazione di una nave da crociera). I cosiddetti buonisti che spesso confondono l’accogliere col farsi i selfie coi bambini africani, la partita di calcetto mista o la festa multietnica pasta e fagioli e cous cous e fraintendono un lavoro delicato che va fatto con professionalità, costanza e può essere tutt’altro che emergenziale.
Di contro quelli che “prima gli italiani” o “aiutiamoli a casa loro”, i quali sembrano farne un problema d’anagrafe e che potrebbero essere sorpresi dal sapere che nel 2017 in 224mila hanno ottenuto la cittadinanza italiana e che negli ultimi 16 anni c’è stata l’emigrazione di 900mila giovani italiani, tanto che “aiutateci a casa nostra” quasi potrebbe essere uno slogan più efficace. Gli stessi che non si offendono più manco se li chiamano razzisti, dato che hanno verificato l’etimologia della parola su internet e, tutto sommato, non gli spiace.
Sicuramente risulterò noioso ma credo sia sempre doveroso ribadire che la ricchezza di questa parte di mondo in cui viviamo si basa sullo sfruttamento di chi e al di là del Mediterraneo (ad ogni latitudine); dopo l’occupazione fisica delle colonie, la de-colonizzazione, la nascita di stati decisi con righello e compasso, è solamente nostro interesse (attuale centro di potere) mantenere l’Africa (e qualsiasi altra parte del mondo che abbia risorse materiali o produttive a basso costo) una polveriera, imponendo o sostenendo regimi corrotti, amici dei potenti di turno, pronti a schiacciare la propria popolazione pur di fare il proprio interesse e detenere il più a lungo possibile il potere.
In sostanza, è razzista l’essere ottusamente aperti o chiusi, se non si rompe lo schema del noi che stiamo facendo (o dovremmo o vorremmo fare) qualcosa per loro. Ciò non implica che siamo tutti razzisti. Sicuramente siamo molto attenti a porre una distanza di sicurezza dall’altro, animali sociali con una naturale diffidenza verso la diversità, che, se da un lato ci affascina, difficilmente è inclusa nel nostro alveo. Non è un caso che frequentiamo per lo più gente simile a noi e in ciò il quotidiano non ci aiuta, non favorendo prossimità e vicinanza, ma rapporti obbligati (per lo più dal lavoro). Restiamo lontani e da lontano è difficile parlarsi, capirsi, non dico confortarsi perché è passato completamente di moda. Anche i dibattiti politici sono dei comizi intervallati da fastidiose pause in cui parla qualcun altro. E tale generale tendenza investe, con esiti più pesanti, il rapporto con gli stranieri.
Il cambiamento è in atto, se non nella qualità dei rapporti, nei numeri: la composizione demografica dell’Europa cambierà drasticamente nei prossimi 50 anni. E allora il nostro benessere più che per un’inutile sfida alla storia può essere garantito ponendo le basi di un costruttivo rapporto nei confronti dell’altro, da una sana, diffusa e costante educazione interculturale.
Negli anni, le uniche volte che mi è capitato di vedere persone di diversa nazionalità spalla a spalla, unite in un fronte comune, è stato in situazioni che le vedeva nella stessa condizione socio-economica o con un problema condiviso. Il cambiamento non può prescindere dal condividere, vivere insieme e mischiarsi, unito alla spinta culturale che, in questo particolare momento, deve lottare (e probabilmente soccombe) contro chi disinforma, confonde, manipola, divide e crea conflitti che altrimenti non avrebbero alcun motivo di esistere.
Giovanni D’Errico
photo credit: Giovanni D’Errico