ACERRA – Ad un anno dalla morte di Mons. Antonio Riboldi vi proponiamo – qui di seguito – la presentazione che padre Vito Nardin, preposito generale dei Rosminiani, ha scritto nel volume “Antonio Riboldi ‘Aprirò nel deserto una strada’: da ‘don terremoto’ a Vescovo di Acerra” (Edizioni Rosminiane Stresa) dato alle stampe in questi giorni.
I fiori deposti continuamente con cura affettuosa e devota sulla tomba di mons. Antonio Riboldi nella cattedrale di Acerra, sono un segno grato delle persone con le quali egli ha condiviso quasi quarant’anni di vita nella Diocesi. Altri venti ne aveva vissuto a Santa Ninfa nella Valle del Belice. Tante persone, ad Acerra, ma anche ben più lontano, sentono di dovergli molto.
È opportuno che ai fiori si aggiunga questa raccolta di testimonianze. Raccontano di lui, ne evidenziano le azioni, le parole, gli scritti, l’amore a Dio e al prossimo. Quasi come in un filmato, al lettore sembra di essere in compagnia di mons. Riboldi mentre si dedica a farsi voce di molti, “uomo di fede e di lotta”, motore instancabile della promozione umana.
“Organizzare la speranza” è il motto che lo spinge a non esimersi da incontri di vario genere, viaggiando in ogni parte d’Italia. La raccolta dei numerosi riconoscimenti di questa missione accomuna moltissime località.
Nel linguaggio “rosminiano” evidenzia le tre forme della carità: corporale, intellettuale, spirituale.
Egli stesso l’ha riassunta nella parola “carità integrale”, titolo di un suo libro.
Le scuole di ogni ordine e grado lo invitavano per l’educazione alla legalità. Le forze dell’ordine per la missione di servizio alla società civile. I movimenti ecclesiali, le associazioni di volontariato, e tante altre forze vive, specialmente di giovani, lo hanno sentito a fianco nel loro cammino. I vescovi gli chiedevano di predicare gli esercizi spirituali, le giornate mondiali della gioventù, i convegni ecclesiali. Sostituì due volte madre Teresa di Calcutta che all’ultimo momento non poté giungere all’incontro dove erano confluiti centinaia di giovani.
Dalle testimonianze emerge l’incisività e la vastità della sua azione: una semina larga, su qualsiasi terreno, con la fiducia che Dio fa sbocciare i fiori anche nel deserto. Infatti il suo motto episcopale, disegnato e offertogli spontaneamente da un giovane, mostra una colomba che porge un ramoscello d’ulivo, con la didascalia “aprirò una strada nel deserto”, dal profeta Isaia. Liberare, “schiodare” dalle “schiavitù” e condurre avanti, anche se si tratta di un percorso arido e rischioso. Solo il cammino permette di raggiungere il fine. Il valore infinito dell’uomo, in quanto creatura di Dio, è il punto di partenza e di arrivo in ogni occasione. Se il destinatario è cosciente di questa dignità si tratta di coinvolgerlo in una crescita. Se non lo è, mons. Riboldi, con un’argomentazione solida, efficace, affinata, è capace di risvegliare il gigante addormentato, di unire un popolo sfiduciato.
Nei miei ricordi non svanisce quello di uno sciopero prolungato per più giorni. I suoi interventi vibranti terminavano con il “Padre nostro” recitato da tutti come logica conclusione e visione! In tutte le situazioni il suo scopo era la conversione, non la condanna di chi agisce male.
Ringrazio, a uno a uno tutti coloro che hanno risposto all’invito. È doveroso evidenziare la loro pronta disponibilità, segno di un incontro che ha segnato la loro vita, lasciando una traccia indelebile. Avremmo potuto interpellare anche molti altri, e siamo sicuri che avrebbero corrisposto. Ringrazio i curatori Roberto Cutaia, don Gianni Picenardi e le Edizioni Rosminiane. Ci auguriamo che da queste pagine germogli un fiore e maturi un frutto. Il fiore è la gratitudine per il suo insegnamento e l’esempio. Godiamone tutti e ringraziamo, come in una famiglia ci si sente in dovere di ringraziare chi aiuta qualcuno dei membri. L’opera di mons. Riboldi ha toccato nelle coscienze e nelle comunità, vaste zone d’Italia, della nostra società. Il frutto è che aumenti ancora la coscienza del valore della persona e della sua dignità. La lettura faccia maturare maggiormente questa convinzione, prettamente cristiana e rosminiana, e renda coinvolgente l’impegno, come sapeva fare lui.
padre Vito Nardin, preposito generale dell’Istituto della Carità (Rosminiani)