Una donna che muore, un figlio che resta, un padre perduto e l’Italia?

Un’altra donna che muore, un’altra donna vittima di femminicidio, un altro nome da aggiungere alla lista di persone che non ce l’hanno fatta, un’altra lista di passaggi di “rete” che non ha funzionato, un altro fallimento del sistema di prevenzione. Questa è l’Italia che non ce la fa, questa è l’Italia che si indigna, l’Italia che ha paura, l’Italia che chiede inasprimenti della pena senza conoscere la pena, l’Italia che diventa carnefice dentro un post che parla dell’ennesimo caso di morte di una donna per mano del suo compagno, di suo marito, del suo ex.

Un copione che si ripete davanti all’emergenza, dimenticato appena cala il sipario dell’opinione pubblica. Ma cosa chiede l’Europa per affrontare il fenomeno del femminicidio? Quali sono i richiami al bel Paese che solo nel fine settimane piange la scomparsa di sei donne? E soprattutto, cosa non stiamo facendo per prevenire il posto pieno della scomparsa?

Iniziamo  dalla CEDU ( Corte Europea dei Diritti dell’Uomo): “Costituisce una violazione automatica del divieto di discriminazione in base al genere, la ripetizione di atti di violenza senza interventi di protezione effettiva”. In particolare con la sentenza 2 marzo 2017 ricorso n. 41237/148 (Caso Talpis) è stato evidenziato  come “la mancata messa in atto di misure ragionevoli che avrebbero potuto cambiare il corso degli eventi o quantomeno attenuare il pregiudizio causato, è sufficiente a impegnare la responsabilità dello Stato e che il rischio di una minaccia reale e immediata deve essere valutato tenendo conto del contesto particolare delle violenza domestiche, in cui spesso episodi successivi di violenza si reiterano nel tempo in seno al nucleo familiare”.

 “La Corte ritiene non giustificata la passività delle autorità per il lungo periodo prima che fosse avviata l’azione penale, così come la lentezza con cui si pervenne alla condanna di TALPIS per le lesioni aggravate denunciate dalla ricorrente”.

In particolare si legge che “le autorità non valutarono i rischi che la stessa correva e, non agendo rapidamente dopo la denuncia, svuotarono questa di qualsiasi efficacia, creando un contesto così detto di impunità, favorevole alla reiterazione degli atti di violenza da parte di Talpis, culminati poi nei tragici avvenimenti del 26 novembre 2013”. 

Nessuno è dunque più immune dal giudizio, che si tratti di Stato o Forze dell’ordine come nel caso, risalente al 2012, del carabiniere di Palermo, Rinaldo D’Alba, che uccise la moglie, Rosanna Siciliano, davanti alle due figlie che allora avevano l’età di 12 e 5 anni.

Figlie, che oggi, insieme con la nonna materna e gli zii materni, hanno citato la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della Difesa e il Ministero della Giustizia, davanti al Tribunale civile di Palermo, chiedendo il risarcimento del danno.

Un altro aspetto che appare “trascurato” in termini di prevenzione è il lavoro svolto dai Centri di recupero per uomini autori di comportamenti violenti, il cui operato l’Europa auspica da anni, ma che nel nostro Paese ha ottenuto il primo riconoscimento da un tempo davvero breve, circa due anni, per ricadere nell’oblio a fasi alterne: evidente l’assenza di una campagna mediatica uniformata sulle reti nazionali che consentano quel lavoro di rafforzamento che renda i Centri come i CAM (Centri di Ascolto Uomini Maltrattanti) una realtà vicina alle persone che in tal modo potrebbero essere messe a  conoscenza del fatto che un uomo che agisce comportamenti violenti può intraprendere un percorso di recupero volto a far cessare la violenza, nel nome di quella tutela di donne e minori che resta troppo spesso un appello perso tra le pagine di raccolta delle testimonianze.

Le denunce diminuiscono in relazione all’aumento della sfiducia nelle istituzioni ed intanto il protagonista della violenza, il primo su cui la lente della prevenzione dovrebbe concentrarsi, resta slegato dal sistema di “rete”, mostra segnali, compie azioni, ma nella maggior parte dei casi non viene inviato ai servizi per uomini maltrattanti.

Era il 2011 quando la Risoluzione del 5 aprile 2011 sulle priorità e sulla definizione di un nuovo quadro politico dell’UE in materia di lotta alla violenza contro le donne (2010/2209 INI) del Parlamento Europeo, al punto 24 ha ribaditola necessità di lavorare tanto con le vittime quanto con gli aggressori, al fine di responsabilizzare maggiormente questi ultimi ed aiutare a modificare stereotipi e credenze radicate nella società che contribuiscono a perpetuare la condizioni che generano questo tipo di violenza e l’accettazione della stessa”, eppure ancora in pochi ne parlano e resta assente un orientamento mediatico e istituzionale condiviso volto a diffondere e comunicare l’utilità, l’operato e la necessità dell’esistenza di servizi per il recupero degli autori.

Ed intanto un altro giorno è trascorso, un’altra violenza si è consumata, un altro appello è stato lanciato, ma si è perso nella rete, incagliato nelle fila di chi non si assume la responsabilità dell’impopolarità della scelta di affrontare la violenza di genere in ogni sua sfaccettatura e complessità, dalla vittima all’autore.

Elena Mascia

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