NAPOLI – Venerdì 13 ottobre 2017, il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” ha ospitato il seminario “Il calcio come strumento di inclusione sociale dei migranti”. Promosso dalle cattedre di Sociologia dello sport della Federico II e di Diritto dell’Unione europea dell’Università di Napoli L’Orientale, il seminario è frutto di un’azione di ricerca condotta dalle due cattedre sulla pratica sportiva e il suo impatto nei diversi contesti sociali e aderisce alle Football People Action Weeks, campagne sociali che puntano sul calcio come mezzo di inclusione sociale e di lotta alle discriminazioni.
La discussione è stata animata da esponenti di diverse realtà sportive del napoletano e del casertano (Afro Napoli United, Dedalus Soccer, Stella Rossa e RFC Lions SKA Football Club) che hanno il merito di aver creato dei veri e propri laboratori che si servono del calcio, e delle sue enormi potenzialità educative e di socializzazione, per diffondere pratiche antirazziste, di inclusione sociale e di recupero di spazi esistenti ma poco accessibili (in particolare campetti cittadini abbandonati).
Gli esponenti di tutte le realtà hanno lamentano un quadro legislativo e burocratico avvilente. La situazione degli adulti richiedenti asilo con il permesso provvisorio di 6 mesi i quali, benché regolari, hanno difficoltà a farsi tesserare, dato che devono attenersi ai tempi di rinnovo ed emissione dei documenti delle Questure, di solito non particolarmente celeri.
Ma più grave è la questione dei minori extracomunitari. Da Gennaio 2016 in Italia esiste una legge che permette ai minori stranieri di essere tesserati presso le federazioni sportive italiane, seguendo il principio dello ius soli sportivo; tale provvedimento si rivolge a tutti i minori che risiedono regolarmente sul territorio “almeno dal compimento del decimo anno di età” ed equipara il loro tesseramento a quello dei coetanei italiani.
Nonostante tale novità, la FIGC si attiene ancora al regolamento FIFA, orientato fortemente a contrastare il traffico di baby calciatori, il quale richiede, ai fini del tesseramento di minori stranieri, l’autorizzazione dei genitori e la loro presenza con regolare permesso, negando la delega della potestà genitoriale di un minore. Questa scelta genera una discriminazione nei confronti dei minori non accompagnati, non riconoscendo, di fatto, la figura del tutore, alternativa per legge a quella dei genitori.
Non importa se alcune federazioni (hockey su prato, atletica leggera e pugilistica) abbiano ampiamente anticipato i tempi, iniziando ad applicare il principio dello ius soli sportivo ancor prima che diventasse legge per tutti, il calcio è rimasto indietro, mettendo in discussione l’idea di un diritto allo sport universale, che è invece negato, complicato dalla burocrazia e da regole molto rigide.
Si è anche parlato di un altro tema culturalmente molto interessante, l’equivoco del successo. Un caso da manuale è la storia di Mamadou Coulibaly, il forte centrocampista del Pescara che, arrivato su un barcone, ha vissuto in strada prima di essere accolto in una casa famiglia e poi fatto ha esordito in Serie A, non ancora diciottenne, sotto l’egida di Zdenek Zeman.
Sono sempre più numerose le storie di migranti arrivati in Europa e diventati dei calciatori professionisti ricchi e famosi, quello che non si racconta è l’altra faccia della medaglia, il dramma di chi ha fallito. Dietro i campioni c’è una schiera di ragazzi che non ce l’hanno fatta, perché il sistema calcio è spietato, le
percentuali di un successo sono bassissime e il tasso di mortalità sportiva (e spesso sociale) drammaticamente alto.
Perchè il calcio africano fornisce sempre più giocatori all’Europa ma è sempre meno ricco e sviluppato? La risposta è che è ancora vittima di una vera e propria tratta umana di calciatori minorenni. Una volta presi nelle accademie da spietati procuratori europei, pagati quattro soldi alle famiglie e gli intermediari locali, portati in in Europa, provati e scartati, si sono spesso ritrovati in strada, spesso in clandestinità, senza contatti e supporto alcuno. Una dinamica post-coloniale che vede il calcio europeo speculare su quello africano, cercando di mantenerlo a un livello di sviluppo lento con lo scopo di conservare inalterati i rapporti di forza.
Questa lunga disanima per dire che la brama di successo è una questione che le realtà sportive anti-razziste devono quotidianamente affrontare: far capire ai giovanissimi calciatori che c’è un altro calcio oltre a quello che viene trasmesso in tv, che il calcio è uno sport, diverso dallo spettacolo che li ha ammaliati e spinti ad attraversare il mediterraneo; che non è sbagliato puntare in alto ma che bisogna essere consapevoli ed avere le spalle forti per affrontare un probabile fallimento.
Tirando le somme, è venuto fuori che la gestione di una squadra di calcio che si pone l’obiettivo di includere stranieri, adulti o minori, è un lavoro dal forte impatto educativo; i calciatori vanno presi in carico come persone e non solo seguiti dal punto di vista sportivo, non è un caso che si lavori a stretto contatto con le strutture di accoglienza; bisogna saper intervenire in caso di stress post traumatico (patologia sempre più frequente tra gli sbarcati) o di insulti razzisti, che, se stigmatizzati nelle serie maggiori, sono un fenomeno che con una triste regolarità si manifesta nei campi di provincia.
Giovanni D’Errico
photo credit: Giovanni D’Errico