«Sogno di riportarli nelle biblioteche di Timbuctù con la pace» dice con un sorriso Abdel Kader Haidara, il bibliotecario che ha salvato dai roghi qaedisti i manoscritti dell’antica capitale dell’Impero del Mali patrimonio mondiale dell’umanità.
Per intervistarlo nella sede della sua ong, Savama, è stato necessario attraversare Bamako fino a una stradina sterrata nascosta alla periferia della città. Qui, all’ombra di un mogano del Senegal, sotto la scritta “salvaguardia e valorizzazione dei manoscritti per la difesa della cultura islamica“, un uomo sulla cinquantina ha allargato le braccia in segno di benvenuto. «Ho lasciato Timbuctu’ precipitandomi a Bamako perche’ non c’era un minuto da perdere – ricorda Haidara – la prima emergenza è superata e adesso ci sono i finanziamenti degli Stati Uniti, della Germania, della Turchia e di Dubai, ma bisogna fare ancora molto e serve anche l’aiuto dell’Italia».
Ha il volto disteso ma va subito al punto, il bibliotecario. E chissà che fine avrebbero fatto i manoscritti se non avesse questa capacità. «I documenti sono 377.481 – calcola – li abbiamo trasportati con corrieri o aiutanti improvvisati, a bordo di pinacce lungo il Niger o nascosti su pick-up sotto casse di frutta e verdura per oltrepassare i posti di blocco».
Sono i mille “furti“, in tempi di guerra, appena ricostruiti dal giornalista inglese Charlie English ne ‘I ladri di libri di Timbuctù‘. È il 2012: l’ex capitale dell’Impero, faro della cultura islamica, filosofica e scientifica dal XIII al XV secolo con la sua università e le scuole coraniche, è occupata dai combattenti di Al-Qaida nel Maghreb islamico (Aqmi). In poche settimane il dialogo con gli abitanti si rivela difficile, poi impossibile. Da una parte, il jihad nella versione salafita; da un’altra, le tradizioni della ‘Citta’ dei 333 santi’, l’altro nome di Timbuctù, luogo di incontro e sintesi tra l’islam e le culture africane all’insegna sempre dell’apertura e della conoscenza.
Il conflitto scoppia una mattina di fine giugno, quando un centinaio di miliziani armati di pale, picconi e martelli circondano il mausoleo del pensatore islamico Sidi Mahmoud. La tomba va in frantumi insieme con i sepolcri di 167 discepoli. “Esiste una legge coranica“, avrebbero sostenuto i qaedisti, “che dice che una tomba non deve superare i cinque centimetri di altezza dal terreno e che nessuno deve essere oggetto di venerazione a parte Dio“.
È dopo questo episodio che Haidara, insieme con alcuni altri bibliotecari di Timbuctù, si convince che è necessario trasferire subito i manoscritti. Sono settimane ad alto rischio fino all’ultimo giorno dell’occupazione: poco prima dell’ingresso a Timbuctù delle unità dell’esercito del Mali, preparato dai raid dell’aviazione francese, nella sede dell’istituto statale Ahmed Baba sono dati alle fiamme centinaia di documenti.
Ma che sia finita bene lo si capisce guardando dentro i bauli colmi di incartamenti nella sede di Savama. «Il nostro obiettivo e’ terminare l’inventario entro il 2018 – spiega Coulibaly Konatè, portavoce dell’ong – restano da ordinare, ripristinare e riporre nelle scatole protettive 150mila documenti».
Al lavoro ci sono oltre 80 esperti, per lo più arabisti laureati all’Università di Bamako. Hanno seguito corsi di formazione finanziati dal centro Juma Al-Majid di Dubai, dalla fondazione Ford o dall’Unesco, il Fondo dell’Onu per la cultura, l’educazione e la cultura. Prima di catalogare fotografano, traducono e interpretano note, saggi e trattati, scritti sempre in caratteri arabi anche se a volte le lingue utilizzate sono africane. Il lavoro potrebbe accelerare grazie alla firma di un accordo con Google, che proprio in questi giorni ha consegnato apparecchiature d’avanguardia per la digitalizzazione. Completato l’inventario, sperando che gli accordi di pace firmati nel 2015 con i separatisti tuareg bastino a tener lontana Al Qaida, i documenti potranno tornare a Timbuctù.
«Ad accoglierli saranno 45 nuove biblioteche, che dovrebbero essere pronte per la fine del 2018» annuncia Haidara. Convinto che il conflitto, a dispetto dei proclami di Aqmi, con la religione non abbia nulla a che fare. «Il Corano è uno solo, non ce ne sono due – sottolinea – quello che è accaduto nel nord del Mali o anche in Iraq, Yemen o Somalia, non c’entra con l’islam, che è una religione di pace».