La grottesca vita di un operatore sociale dell’accoglienza

Sarebbe ironica la vita di un operatore sociale, se non fosse – in verità – grottesca, in una dicotomia pirandelliana che calza magnificamente anche ai giorni attuali. L’evoluzione del sociale italiano ha portato all’affermarsi e all’istituzionalizzarsi di una serie di figure professionali fino a pochi anni prima inesistenti: come quella dell’operatore dell’accoglienza.

Anche i richiedenti protezione internazionale, in realtà, hanno subito un’evoluzione da tutti i punti di vista: normativa, istituzionale, gestionale. Lo stesso principio di diritto d’asilo è stato deprivato di un significato univoco, andando incontro velocemente a una deframmentazione di declinazioni diverse, là dove il diritto diventa pericolosamente suscettibile di soggettività.

Marco Ehlardo è un esperto del settore sociale, e da tempo si occupa di migranti, oltre a esser stato project manager di un programma di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. Da quest’esperienza è nato il suo ultimo libro, edito da Edizioni Spartaco, “Fratello John, Sorella Mary” che ha un sottotitolo più esplicativo di qualsiasi recensione: “Le nuove avventure semiserie dell’operatore sociale precario Mauro Eliah”.

Mauro Eliah ci racconta la quotidiana vita di chi lavora, completamente immerso, nel settore sociale, in particolare quello dell’accoglienza a richiedenti asilo, che negli ultimi anni ha occupato gran parte della sfera settoriale. Racconta la difficoltà di giostrarsi tra le tante maglie burocratiche, i finanziamenti pubblici, le cariche amministrative, gli impedimenti a dir poco assurdi di colleghi e capi. Ogni giorno è un campo minato di difficoltà e problemi da risolvere, in una successione stra-ordinaria di cicli problematici che parevano risolti: come a dire che il settore sociale è una trincea da dove, ogni giorno, si rintuzzano attacchi e incursioni, un’occupazione di frontiera, dove sempre bisogna riorganizzarsi in tempi strettissimi e dove si ha la necessità – pena, la rotta – di prendere iniziative non codificate né programmate.

Il mondo di Mauro Eliah è popolato di figure poste su piani livelli ma che vengono caricate di valori universali e complessi: c’è tutta una complessa umanità colta in ogni suo atteggiamento più completo e coinvolgente, colto dall’occhio vigile del narratore che legge tutto attraverso un’insofferenza sempre costruttiva e mai distruttiva, consapevole che arrendersi significherebbe far venir meno l’unica resistenza sociale possibile in un mondo dove le urla soffocano le notizie e dove l’incitamento all’odio è una pratica dolorosamente diffusa e propagata. L’operatore sociale cerca di assecondare tutti i venti avversi, laddove impossibile è dominarli, senza farsi distruggere né portare fuori rotta. Nel suo lavoro, inevitabilmente l’operatore sociale coinvolge la sua interiorità, il suo mondo di etica e morale, che spesso stride e collide con chi finanzia e chi dirige, riducendo l’accoglienza a una banale pratica burocratica, obbligatoria, come fosse un’inevitabilità del destino. Ma accogliere vuol dire ben altro, e Mauro Eliah lo sa. Come bene lo sa Marco Ehlardo, il quale ci documenta tutto questo attraverso una finzione ma pur sempre intensa, sapida, costruita con uno stile accattivante, con un’ironia sottile ma mai denigratoria, con una consapevolezza che non diventa mai sfrontatezza.

Marco Ehlardo fa conoscere dall’interno l’universo complesso dei richiedenti asilo e dei profughi, dei tanti uomini e delle tante donne che attraversano il mare e approdano in Italia come primo luogo d’Europa. Lo fa conoscere con, in aggiunta, tutte le complessità che una città come Napoli, in sottofondo, presenta e dimostra: il buonismo, il pietismo, la violenza, la difficoltà del lavoro, gli ostacoli burocratici, l’insofferenza dell’équipe, l’assenza di preparazione degli operatori, la solitudine degli operatori stessi, il loro inevitabile coinvolgimento emotivo e personale. Marco Ehlardo realizza tutto questo, in un testo divertente e “semiserio”, che sublima però un’affermazione fondamentale, da cui bisognerebbe partire per restare umani e cambiare un po’ in meglio: “Tutti i migranti sono uomini”. Senza buonismi né razzismi.

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