Mi chiamo Beto.
O meglio, mi chiamano Beto. Il mio nome è Alberto. Alberto Hernandez. La mia famiglia è numerosa: io sono il primo figlio, e papà fa tanti sforzi per farmi studiare all’università.
È un granadero in pensione, si priva di tutto pur di non farmi mancare nulla. È un grande uomo il mio papà. Ha un figlio con molta fantasia e non lo ostacola, anzi lo incoraggia. Anche lui pensa che un po’ di fantasia, al potere, non possa che fare bene.
Sentendolo parlare capivo da dove provenissero i miei ideali e quel mio eterno moto di ribellione, quella mia continua richiesta di un cambiamento della società che mi stava sempre più stretta.
Così mi spiego la mia smania di costruire un mondo migliore e l’indignazione che provavo per le morti per fame in Biafra e la segregazione razziale in Rhodesia.
Me lo ricordo ancora quell’anno. Era il ’68, ed io ero uno studente universitario. La storia c’ha insegnato che fu un anno di grandi cambiamenti e lo fu anche per me: quel maledetto luglio il cuore di mio padre cessò di battere e persi la sua guida ed i suoi sorrisi.
Avrei voluto parlare ancora con lui: farmi spiegare perché i sovietici avevano mandato i carri armati a Praga e soprattutto perché i granaderos facevano continuamente irruzione nelle nostre facoltà. Gli avrei chiesto che fastidio potevamo dare noi studentelli, un po’ arrabbiati e che volevano cambiare il mondo, ad un paese come il Messico che proprio in quell’anno dava sfoggio del suo prestigio internazionale con l’organizzazione dei Giochi Olimpici? Ed avevo anche un’altra domanda per lui: se noi vogliamo cambiare la società in meglio, perché la società ci ostacola?
Lui non poteva rispondermi ma nel suo ricordo avrei trovato tutte le mie risposte.
Quell’anno accademico 1968 iniziò molto presto:
era il 27 di agosto e scendemmo in piazza: tutti. Ci demmo appuntamento a el Zòcalo la nostra piazza principale a Citta del Messico. Orgogliosamente rivendicavamo che quella era la quarta piazza più grande del mondo ed orgogliosamente quel giorno la riempimmo.
Eravamo oltre duecentomila. Ci accampammo lì. Dovette arrivare l’esercito, il giorno dopo a disperderci. Al presidente Diaz Ordaz non andò giù la nostra prova di forza. La risposta furono i granaderos in assetto anti sommossa all’Universidad Nacional.
Fu instaurato un clima di terrore. Molti dei miei compagni vennero picchiati. Indiscriminatamente, solo per il gusto di intimidirci. Il nostro rettore Barros Sierra si dimise per protesta dal suo incarico.
A proposito di proteste, il nostro sciopero continuava: avevamo raggiunto le nove settimane. Era il due di ottobre. Ricordo ancora il tam tam: Marciamo verso Tlatelolco, verso Tlatelolco.
«Yo estoy con vosotros» dissi e mi aggiunsi a loro… marciammo in quindicimila per le vie della città protestando contro l’occupazione dell’università e contro il governo di Diaz Ordez.
«Yo estoy con vosotros» dissi e mi aggregai al gruppo che marciò verso Plaza de las Tres Culturas che noi chiamavamo Tlatelolco.
Eravamo al centro di Città del Messico in una piazza che raccoglieva e rappresentava la storia del paese: le rovine precolombiane, gli edifici dei conquistadores spagnoli ed i nuovi palazzi della moderna Mexico City.
Pensavamo di passare alla storia : per aver manifestato pacificamente contro il regime di terrore imposto all’Universidad Nacional ma non fu così.
Arrivò la notte, fra il due ed il tre ottobre 1968, e mi portò con sè. Non so cosa mi sia successo: ricordo carri armati e blindati che circondarono la piazza ed aprirono il fuoco ad altezza d’uomo. Fu un massacro che continuò per tutta la notte.
Dissero che avevano risposto al fuoco degli studenti, ma noi eravamo disarmati. Morimmo in più di trecento. Il mattino dopo mi portarono via con un camion dell’immondizia e ripulirono la piazza. Non furono fornite notizie né cifre di quel massacro.
Da allora sono diventato un “NON numero”. Ancora oggi, quarantotto anni dopo, non si sa che fine io abbia fatto.
Michele Docimo