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Mi chiamo Joseph,
ho visto in faccia la morte quella sera alla sartoria. L’ho vista per ben sei volte. Ho visto anche chi ha sparato, ho avuto paura. Ma la mia voglia di giustizia è stata più forte di tutte le mie paure.
Ho pensato, ma è stato solo un attimo, di dire di non aver visto nulla. Sarei stato tranquillo… ma non lo sarebbero stati i miei compagni. Li avrei uccisi una seconda volta. Proprio io, Joseph, il loro amico.
Un proverbio ghanese dice “se sei caduto nello stagno, non strizzare le vesti prima di aver raggiunto la riva”.
Avevo uno stagno da attraversare: un lungo cammino verso la giustizia per me e per i miei compagni.
Fingermi morto mi aveva già salvato, ora dovevo mostrarmi più vivo che mai.
Quanti colpi hanno sparato. Mi hanno colpito alle gambe e alla pancia. Ero terrorizzato, ho chiuso gli occhi, sono rimasto immobile e contavo i colpi… 50, 70, 100 ho perso il conto… non mi sono mosso da terra, m’è andata bene.
Non come il povero Eric, il carrozziere, il più piccolo tra noi. Poverino, non s’è accorto di nulla era passato a prendere Francis, lo aspettava in macchina. Non ha avuto il tempo di ripararsi. I colpi l’hanno falciato. La polizia mortuaria ha dovuto slacciargli la cintura di sicurezza per metterlo nel suo penultimo giaciglio.
Erano tutti bravi ragazzi i miei amici della sartoria uccisi:
c’era Francis il piastrellista, Alex il muratore liberiano che quando non c’era troppo lavoro andava nei campi dove di braccia c’è sempre bisogno e da poco, pur di mandare qualcosa in più a casa, s’era messo in testa di voler vendere vestiti. Adams, il nostro barbiere: lavorava in una bottega a Napoli, in Piazza Garibaldi. Gli trovarono addosso dei soldi e pensarono subito ai proventi di una partita di droga… come se un africano non potesse guadagnare e risparmiare soldi onestamente. E poi i togolesi Ababa e Samuel: il povero Ababa è stato freddato mentre era alla sua macchina per cucire all’interno della sartoria. Doveva finire un lavoro e dopo sarebbe andato a mangiare con Samuel per consumare insieme ad altri amici l’iftar, il pasto serale del Ramadan.
E poi ci sono io, Joseph, vivo per miracolo. Penso che se il destino ha voluto che io fossi ancora vivo è perché io denunciassi i carnefici, gli assassini.
La pagheranno, ricordo ancora quando sparavano e con tutto il disprezzo possibile dicevano “so tutte uguale sti cazze ‘e nire”.
Il giorno dopo il sangue di San Gennaro si sciolse come ogni anno e di noi si iniziarono a dire le peggiori cose: regolamento di conti, che volevamo allargarci, che il patto coi casalesi era venuto meno… in realtà noi non stavamo facendo altro che vivere le nostre vite.
Hanno sparato nel mucchio, hanno scelto noi per colpire l’Africa in generale e le loro assurde paure del diverso.
E per il mio continente ho scelto di denunciare, sperando di dare il buon esempio anche a chi vive in questa mia nuova terra. Chissà, forse ci riesco.
In Ghana diciamo che “ogni cosa che cresce lentamente mette radici profonde” … io ho buttato il seme.
[…]
Michele Docimo
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