Igiaba Scego, Adua, Editore: Giunti, ISBN: 9788809792340 | Bibliografia Igiaba Scego
“Adua”, il nuovo lavoro di Igiaba Scego è indubbiamente un romanzo di migrazioni. E non è riduttivo presentarlo così: perché anche se oramai agli onori delle cronache e anche se tutti ne sono arrogantemente diventati degli esperti, le migrazioni portano con sé un carico umano complesso e multiforme, hanno una profondità di prospettive e di angolazioni che spesso soltanto chi possiede una notevole sensibilità può coglierli e presentarli in una forma che non sia di polemica o di assillo politico.
E Igiaba Scego, con la sua prosa scorrevole ma non banale, essenziale ma non superflua, plasma dei personaggi che rimangono indelebili nella nostra mente, stampati come marchio nelle memorie, sia perché li abbiamo già visti, seppur distrattamente, sia perché un po’ ci riguardano in maniera prepotente.
L’idea che è germoglio di “Adua” ha la sue radici in quel colonialismo italiano che tanto poco è ancora stato studiato e indagato; quel colonialismo che un po’ distrattamente troviamo nelle nostre città traboccanti di nuovi migranti, come ad esempio in quei Cinquecento che danno il nome al piazzale della Stazione Termini a Roma, ma che nessuno ha idea di chi siano. Il colonialismo italiano ha lasciato ferite più che profonde, particolarmente in una terra – la Somalia – che, più di altri, è stata definita un Failed State, uno Stato fallito. Per questo, in “Adua” scorre sottopelle una sorta di risentimento aspro, mai però irrazionale o immotivato, nei confronti di questo patrimonio devastato, di un passato raso al suolo in nome di una presunta superiorità.
Sono rapporti ardui da indagare e spiegare quelli tra colonizzato e colonizzatore, quelle continue maree che ti attirano e ti respingono, che ti avvicinano e ti allontanano e nelle quali spesso si rimane in balia, sventrati da un doppio moto che dilania e fa perdere i punti di riferimento, in un continuo perdere e riappropriarsi di un’identità che sia anche solo presunta.
Ma in “Adua” ci sono anche i rapporti profondi tra gli uomini, quelle corrispondenze che danno senso alla nostra vita e la significano a prescindere da tutti gli eventi. Ecco allora che la storia di Adua si sdoppia su un binari paralleli e, in alcuni tratti, persino tangenti: sono i vari episodi di “paternale” in cui si saldano le storie di Adua stessa e del padre, Zoppe, anche lui protagonista di una doppia migrazione, di un viaggio di andata e di ritorno, verso una speranza che subito si frantuma e poi verso la rovina che è ancora peggiore del ricordo che se ne aveva. Ecco allora che le due memorie si fondono, in un canto corale che assume due diversi punti di vista (interno, lei; esterno, lui) ma che con la precisione chirurgica di uno stile essenziale ma trivellante, ci fa immedesimare con la stessa facilità in queste due figure così diverse ma così legate, allacciate da un caso brutale, o da un destino – se qualcheduno ci crede – crudele e persino sadico. È una storia simbolica, quella che si dipana, a cominciare dal nome. Ma anche nei suoi rimandi, nelle strade di quella città, Roma, la capitale dell’impero, che finisce sempre per attrarre a sé come il cuore di un tornado in corso contro tutti i futuri possibili. I tempi e le epoche sono diversi ma uguale, identici i sensi di frustrazione, di smarrimento, di violazione che ne derivano; tutte quelle umiliazioni che vengono imposte, inferte come inevitabili e persino giuste, meritate.
Quell’ansia di liberazione che si lega a una memoria, a una vecchia casa che chissà se ci sarà ancora, a una figura materna che sia protezione ma anche laccio a stringere troppo e lasciare senz’aria, tanto che poi inevitabile è un’altra fuga, sempre un passo avanti, per proseguire una migrazione che, per sua stessa natura, non può mai avere una fine certa.
Giulio Gasperini
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