Ai tempi dei romani la zona della foce del Garigliano era considerata un “lucus”: un termine che, tradotto dalla lingua di Cicerone, designa un bosco sacro, un luogo paradisiaco solitamente legato al nome di una divinità.
Ed infatti la costa che oggi idealmente è il punto che segna l’inizio “geografico” del Meridione d’Italia, era unto dall’alone protettore della dea Marica, quella che secondo i discendenti di Enea era la paladina delle zone paludose e acquitrinose, alla quale era consacrato il tempio sito nell’odierna Minturno, il primo comune di dimensioni notevoli della provincia latinense che si incontra una volta valicato il fiume che è spola naturale tra Lazio e Campania.
Ma poi i libri di storia ci narrano dell’arrivo dei Vandali (proprio il popolo barbaro, non quelli che oggi comunque meritano e si vedono affibbiati tale appellativo) e ci denunciano di ville gentilizie di facoltosi romani distrutte dall’onta ossessiva e catastrofica delle popolazioni che poi avrebbero sopravvenuto all’intera civiltà latina. Un’intera zona, quella compresa tra il litorale di Sessa Aurunca fino ad arrivare al lago Patria, fu distrutta e poi abbandonata al suo destino naturale, che la videro man mano divenire un luogo adeguato per morire di malaria e dissenteria. Quindi un posto che, al pari di Pompei ed Ercolano, era meta ambita per le villeggiature dei nostri antenati, ma che poi dovette soccombere sotto la tirannia e la voracità di certi esseri umani, così come le note località vesuviane erano state divorate dall’ingordigia del vulcano.
Per il piacere di chi ama i corsi e ricorsi della storia, tutto ciò, se trasposto nelle giuste contingenze temporali ed ambientali, è accaduto anche appena pochi decenni fa: quando Baia Domizia e il Villaggio Coppola non erano modelli di speculazione edilizia e di contravvenzione alle leggi sul demanio (che divennero però realtà però solo dopo molti anni di edilizia sfrenata) , ma piuttosto mete turistiche che per servizi e prestigiosità competevano con Capri, Sorrento, Positano, fu la natura stessa a farsi fautrice del “big bang” che poi tra gli anni ’80 e 2000 contribuirà a far saltare fuori mezzo secolo di compromessi affaristici, collusioni amministrative ed inquinamento ambientale. L’infausto terremoto del 1980 riuscì a dipanare la sua ombra nera di morte non solo tra le macerie dell’Irpinia, ma tra gli infratti di una politica amministrativa che operava già da agente attivo nelle vicissitudini criminali della camorra campana ed in particolare dei cartelli criminali di Bardellino da una parte e del giovane Cutolo dall’altra.
Fu un non certo saggio “esperimento sociale” (condito da una grossolana speculazione economica) quello di trasformare alberghi e condomini tana della borghesia campana in villeggiatura in rifugi per i terremotati: oppure in ghetti di tutte le masse di disperati.
Fu un esodo, una mossa politica ed economica per i clan che già avevano posto le proprie grinfie su un litorale che era già considerato la Caserta Marittima, la Rimini del Sud, per affluenza turistica e notorietà. Giovanni Falcone parlava con assennatezza quando disse che per seguire la criminalità organizzata è necessario seguire i soldi: le economie (e le acque) dei lidi posti lungo i quarantacinque chilometri di costa comprendenti le una volta ridenti Baia Verde, Baia Azzurra, Baia Domizia furono inquinate dagli interessi (e dal sangue) del clan La Torre e di tutti i cartelli gravitanti intorno ai Casalesi da una parte e ai Cutoliani dall’altra.
Ma oggi la situazione è diversa. Perché oggi dopo infrastrutture svendute a prezzi stracciati dai privati allo Stato, dopo le carenze architettoniche messe in luce dagli eventi sismici dei primi anni ’80, dopo la Costituzione del Consorzio Rinascita per la riqualificazione della nota Pinetamare che grazie a Cristoforo Coppola e ai suoi otto torrioni divenne il tempio dell’abusivismo edilizio, la scia di sabbia che corre dal Garigliano fino a Pozzuoli sta assumendo un volto diverso. E’ dell’inizio di questa stagione estiva il flash-mob virtuale con cui oltre duecento gestori di altrettanti stabilimenti balneari hanno voluto dar prova visibile delle rilevazioni del 2015 dell’Arpac: dalle foto che ancora girano sui social network, il mare sembra quello “eccellente” descritto dalle rilevazioni dell’organo regionale competente, che ha confermato l’ottimo stato di salute dell’81% delle coste campane, ribaltando i dati del 2005.
E’ certamente una conquista, specialmente per chi come il proprietario del Lido Mare Blu “appena” dieci anni fa doveva issare la bandiera rossa anche con un mare in bonaccia, perché le condizioni dei fondali erano idonee alla balneazione solo per dodici chilometri della costa campana, mentre erano inaccessibili persino alla vita marina zone permanentemente in stato d’abbandono come quella delle foci Regi Lagni a Castel Volturno o del Savone a Mondragone.
Ma oltre alle condizioni del mare di Ischitella e Baia Domizia, a quanto pare sono mutati in così relativamente poco tempo anche i parametri delle rilevazioni condotte dall’agenzia campana, che dopo un decreto ministeriale del 2010, fortemente voluto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha mutato i criteri di monitoraggio e classificazione delle acque, non andando più a interessarsi di colorazione, trasparenza, e non considerando più parametri batteriologici quali streptococchi fecali, coliformi totali e salmonella. Certamente è anche merito dell’oculata gestione delle coste il fatto che i grafici delle rilevazioni degli ultimi quattro anni abbiano visto una positiva inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti durante i quali il bagno era consentito massimo nelle piscine degli alberghi. Ma è affidabile almeno al 99% uno studio i cui dati vedono variare da una stagione all’altra i propri parametri di riferimento, e soprattutto i cui dati del 2015 tengono conto in realtà delle rilevazioni del 2014?
Mariano Scuotri
photo credit: Michele Docimo / Etiket Comunicazione