di Mariano Scuotri e Pasquale Avella.
«Noi ci siamo sempre pentiti. Non ho mai sentito la coppa dei campioni di Bruxelles come una vittoria, è stata la sconfitta per tutto il mondo del calcio e per tutto il mondo sportivo e non solo sportivo».
Così Marco Tardelli commentava la strage dell’Heysel che gettò il mondo del calcio in uno dei momenti più neri della sua storia: 41 morti, di cui 33 italiani, e centinaia di feriti è il bilancio di quella sera di fine maggio.
L’assalto degli inglesi agli italiani, le istituzioni che si inchinano alla violenza selvaggia degli hooligans, quelle stesse che poi per motivi di “ordine pubblico”, come se non fosse successo nulla, disposero che si giocasse la partita in uno stadio devastato e divenuto come un’arena di gladiatori. Alla fine quella Coppa dei Campioni toccò alla Juventus, grazie al rigore di Platini, andando ad aggiungere un altro trofeo europeo negli annali del calcio italiano: eppure quel giorno nemmeno un fuoriclasse come Tardelli festeggiò.
Lo sport che perde. Che si vede sconfitto dalla fragilità dei suoi tifosi, che invece di sostenere la squadra seguono bandiere che non hanno nulla a che fare con il calcio. Forse perché anche chi dovrebbe esser garante di valori alla base di un sano agonismo, si ritrova complice dell’annichilimento di quelli. Ma questo scenario bellico non si presentò agli occhi del mondo solo quel 26 maggio di trent’anni fa.
3 maggio 2014: durante la finale di Coppa Italia Fiorentina – Napoli, giocata all’Olimpico di Roma, un tifoso partenopeo, Ciro Esposito, fu trafitto da un proiettile nel bel mezzo di uno scontro contro ultras giallorossi, giunti nei pressi dello stadio per rivendicare vecchie inimicizie tra fedi calcistiche. Ciro morì pochi mesi dopo, ma la vera vittima quella sera fu lo stato italiano, quasi a simulare gli episodi di Bruxelles: questura e prefettura furono incapaci di svolgere il proprio ruolo, incapaci di prendere decisioni, delegando la prima “carogna” che si alzasse sulla gradinata.
Ma non si tratta di episodi isolati. Il teatrino delle forze dell’ordine vittime della violenza di belligeranti anti-calcio si ripete spesso nelle domeniche di campionato, o nelle partite di coppa. L’ultima volta a farne le spese è stato anche il patrimonio culturale, con la Barcaccia di Bernini “affondata” non dalle tifoserie capitoline – pur spesso tristi protagonisti di eventi del genere – ma dai “pacifici olandesi” che il 18 febbraio hanno riscoperto il significato della parola “hooligan”, ormai sepolta nei paesi nordeuropei dai tempi della Thatcher. Se l’Olanda, come la Gran Bretagna, ha saputo dimostrare di aver vinto la battaglia contro la violenza in patria, gli “spaccatutto” tifosi del Feyenoord l’hanno saputa esportare all’estero.
Eppure, oltre a Piazza di Spagna ridotta in una trincea, è sempre la “macchina” dello stato italiano e dei suoi amministratori ad uscirne flagellata. Perché anche stavolta la responsabilità non era solo dei 500 facinorosi che, senza nemmeno una matrice politica, si erano dati appuntamento nella prestigiosa piazza romana tramite un tweet visibile a chiunque. Non è bastata certo un’ordinanza di divieto di alcolici diramata solo quel mercoledì sera dal prefetto Giuseppe Pecoraro (già noto per i fatti del maggio del 2014), quando ormai gli olandesi si erano ben “dissetati” grazie ai venditori abusivi, privi di sorveglianza da parte dei vigili urbani (forse febbricitanti?). Ma di nuovo è entrato in azione il meccanismo dello scarica-barile, con il sindaco Marino che accusa Viminale, Prefettura e Questura di non disporre di un adeguato organico di uomini, e con i “geni” pronti subito a dire che bastava recintare la fontana seicentesca per evitare il peggio. Ma purtroppo il marcio di tutta la vicenda non risiede solo nelle 110 scalfitture del monumento, tra l’altro oggetto di restauro poco più di 5 mesi fa grazie al mecenatismo di Bulgari.
L’incuria che nuoce maggiormente è la leggerezza con cui viene digerito il fenomeno dell’imbarbarimento della società, della ormai negazione del significato dello sport simbolo di convivenza civile, strumento di unione tra realtà politiche e umane all’apparenza contrapposte e non accostabili, valore inestimabile di cui si rende portavoce il film “Il Mundial dimenticato” di Filippo Macelloni, nel quale il campionato del mondo di calcio del 1942 diviene realtà tra le bombe del secondo conflitto mondiale. Ma purtroppo, continuando il parallelo cinematografico, vivendo la quotidianità la nostra capacità critica ci riporterebbe con maggiore facilità al cruento “ACAB” di Stefano Sollima. E basta ascoltare qualche coro durante un qualsiasi Milan-Napoli, o farsi una passeggiata fuori lo stadio Stella Rossa di Belgrado per intendere come l’uomo abbia la non invidiabile capacità di tramutare il momento ludico di una partita di calcio nella valvola di sfogo di tutti i disagi del proprio momento storico.
photo credit: La donna e il poliziotto via photopin (license)