Cie, i reclusi che si erano cuciti la bocca: “Per noi non c’è pietà”

ROMA – Sulle labbra il ricamo di sangue è visibile anche dopo che la bocca è stata scucita da tempo. Yassin ha 24 anni ed è un bel giovane alto, allampanato, magrissimo. Con due occhi grandi e scuri e guardano muti sotto un berretto di lana.

Lui è uno dei ragazzi marocchini che hanno protestato contro la detenzione amministrativa, cucendosi la bocca con lo spago e aghi improvvisati a fine dicembre nel Cie di Ponte Galeria. Yassin si è fatto fare una foto con il cellulare da un compagno di cella, con dietro l’immagine del Papa che celebrava il Natale in Piazza San Pietro. E’ stato l’ultimo a scucirsi dopo sette giorni, perché la ferita si stava infettando. Ma anche dopo ha continuato per un po’ lo sciopero della fame. La sua storia è simile a quella di altri 15 giovani di nazionalità marocchina che sono ancora bloccati nel centro di identificazione e di espulsione di Roma, ora che l’attenzione mediatica e politica non c’è più.

Tutti hanno visto il console del loro Paese prima della fine del 2013, colloquio che dovrebbe essere il preludio al rimpatrio. Ma in Marocco non vogliono andare e nemmeno chiedere asilo politico all’Italia. Probabilmente perché non vogliono fare un’azione contro il governo del loro paese. Chiedono di regolarizzare la loro posizione, ad esempio con un permesso di lavoro. Per questo nei giorni scorsi hanno scritto al Papa e al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Lavoravo in Libia – racconta Yassin attraverso un altro trattenuto marocchino che fa da interprete– quando è scoppiata la guerra mi sono ritrovato bloccato in quel paese senza soldi e senza passaporto, la frontiera era chiusa per tornare in Marocco. Volevo andare in un Paese in cui sarei stato meglio, invece qui in Italia mi sono trovato peggio”. 

Lui e gli altri sono stati soccorsi in mare, lavoravano tutti in Libia e dalle coste libiche sono partiti per l’Europa. Arrivati a Lampedusa sono stati portati nel centro di Contrada Imbriacola, sottoposti anche loro all’ormai famoso “trattamento antiscabbia” fatto con la doccia, nudi, all’aperto, davanti a tutti. Poi li hanno trasferiti a Caltanissetta, nel Centro gestito dalla stessa cooperativa che ha in gestione Ponte Galeria, l’Auxilium. E infine nel Cie di Roma.

Noi avevamo sentito parlare così bene dell’Italia e delle sue leggi, pensavamo che saremmo stati accettati – continua Yassin – ma da quando siamo arrivati abbiamo visto cose incredibili, che non avremmo mai immaginato. Quello che ci è successo a Lampedusa significa che non esiste più la pietà. Alla fine ci è toccato cucirci la bocca e fare lo sciopero della fame per chiedere all’Italia un futuro. Noi non abbiamo commesso reati, non abbiamo condanne, eppure siamo qui dentro”.

Anche Rachid, marocchino di 27 anni, una vita da saldatore e muratore in Libia, sente tutto il peso di una pena ingiusta. “Io ho sempre lavorato, non conoscevo il carcere, non sono mai stato dietro le sbarre nella mia vita prima che in questi centri italiani – racconta – durante la guerra sono rimasto bloccato in Libia e ho visto di tutto, anche sparatorie davanti ai miei occhi, ma credo di essermi trovato peggio a Lampedusa”.

Rinchiuso ormai da mesi, Rachid sta imparando un po’ di italiano in questo luogo che lui definisce “peggio di un carcere”. A differenza di Yassin, Rachid è un omone ben piazzato, con le spalle quadrate. Ma basta guardarlo negli occhi per vedere la stessa sofferenza muta di Yassin, l’urlo di dolore delle bocche cucite. Ora le loro bocche sono libere, ma i loro corpi restano intrappolati nel limbo della frontiera.

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