Reinsediamento rifugiati: questo sconosciuto

Pochi i progetti e nessuno andato a buon fine: pochi strumenti e fondi scarsi le cause. Col progetto europeo Torre si cercano  soluzioni condivise.

Tra il 2007 e il 2010 sono stati circa 330 i rifugiati giunti in Italia attraverso 4 programmi ad hoc di reinsediamento in Lazio, Campania e Calabria.

Con “reinsediamento” si intende il ricollocamento di profughi e richiedenti asilo in località (o Stati) diversi da quelle di arrivo dopo la fuga, per tutelare la loro sicurezza e a garanzia di un’integrazione con la comunità ospitante.

A loro andrebbero aggiunti i 184 palestinesi e iracheni reinsediati in Italia lo scorso anno, protagonisti di un progetto a Rieti: il progetto fallì ma, complice la solidarietà del territorio, alcuni di loro hanno dato vita ad Alta Quota, un birrificio artigianale.

Questi processi in Italia difficilmente vanno a buon fine”: l’amara constatazione è del prefetto Angela Pria, Capo Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del ministero dell’Interno.

La causa va ricercata nei pochi strumenti di cui, a oggi, dispone il nostro Stato. Stato che sconta anche una particolare debolezza dovuta a un sistema di welfare in grave affanno e l’assenza di una normativa specifica.

Le più recenti normative europee, però, sono state recepite, avviandosi così al completamento di un quadro che in altri Paesi esiste già da tempo. “La gestione di una delle ultime emergenze, quella dal Nord Africa, ci ha insegnato che l’unica possibilità è collaborare: istituzioni, privati, ong: tutti dobbiamo fare il nostro dovere”, continua Pria. A testimonianza dell’importanza che il tema sta via via acquisendo, dallo scorso 11 luglio esiste un tavolo permanente tra tutti gli attori in scena per gestire flussi massicci di migranti, per non ragionare sempre in termini di emergenza.

Nel 2013 l’Italia ha accolto 39.737 potenziali richiedenti asilo (nel 2011 erano 62 mila, lo scorso anno i numeri si erano notevolmente ridotti per tornare a crescere negli ultimi 12 mesi): “Non può essere solo un territorio – Sicilia, Calabria e Puglia – a gestire questa enorme mole: considerando che da lì, quasi sicuramente, saranno spostati, converrebbe gestire il reinsediamento direttamente sul territorio su cui poi saranno chiamati a interagire”.

Pria auspica un Lab in ogni regione, un luogo di approdo in cui restare non più di un mese per ricevere le informazioni necessarie circa la propria figura e formalizzare la richiesta d’asilo. Passaggio successivo, lo Sprar, il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati che dovrebbe poter garantire interventi di accoglienza integrata (non solo vitto e alloggio, ma anche accompagnamento, assistenza e orientamento per l’inserimento socio-economico). La capacità ricettiva dello Sprar dall’anno prossimo salirà a 16 mila posti. Oggi ne conta 8.400. “Vedere i rifugiati sul territorio faciliterebbe l’integrazione e sfaterebbe la convinzione che gli stranieri rubano il lavoro agli italiani”, precisa Pria che lancia un appello all’Ue. “Da noi i richiedenti asilo arrivano via terra, via aerea, via mare, condizione che non si verifica, ad esempio, in Germania o Svezia: chiediamo una presa di coscienza da parte di tutti, una ripresa, per garantire ai richiedenti i diritti che meritano”.

I problemi legati al reinsediamento dei rifugiati è stato al centro della tavola rotonda “Asylum and resettlement in Europe: new international protection guarantees for refugees?”, conferenza finale del progetto Torre (Transnational observatory for refugee’s resettlement in Europe), finanziato dalla commissione europea e coordinato dal consorzio Nova onlus. Reinsediamento e ri-declinazione di una cultura dell’accoglienza nel Vecchio continente per riequilibrare l’attuale rapporto tra nord/sud.

Si tratta di un progetto pilota che mira a sviluppare un sistema di collaborazione transnazionale per il reinsediamento dei rifugiati e alla costruzione di un osservatorio europeo permanente. Torre ha visto la partecipazione di Italia, Spagna, Portogallo, Germania, Grecia, Cipro (a loro, l’anno prossimo si aggiungeranno Francia e Malta).

“A oggi, solo pochi Paesi nel mondo si sono dotati di un piano d’azione a riguardo – commenta Carlos Lopez, direttore dipartimento ricerca innovazione e sviluppo della fondazione Atenea di Madrid – È opinione diffusa, infatti, che i primi tentativi di reinserimento in Europa si siano rivelati un fallimento.

Nel 2012 se ne sono registrati 2.260 casi. Un numero esiguo, rispetto alle necessità, legato proprio ai limiti degli Stati dell’Unione a riguardo”. Guardando ai Paesi partner, la Germania è quella che si è fatta carico di più casi. L’Italia ha avviato un paio di progetti pilota, ma i risultati non sono stati soddisfacenti. In Portogallo e Spagna sono rarissime le richiesta, come  in Grecia e a Cipro che non hanno ancora un programma di reinserimento.

Tra le cause di questo blocco, la convinzione che il processo di reinserimento cominci solo al momento dell’arrivo dei profughi nello Stato ospitante (l’integrazione dovrebbe cominciare molto prima, quando ancora il richiedente asilo si trova in patria e in Europa si legifera in materia); l’assenza di collaborazione con scuole e aziende, che potrebbero dire la loro su formazione e occupazione; l’ostinazione a concentrarsi sui servizi senza invece posare lo sguardo su un’inclusione totale, termine più idoneo di integrazione.

Dai dibattiti sono scaturite 4 raccomandazioni per progetti di reinsediamento di successo: sottolineare i vantaggi per gli Stati ospitanti di poter godere dei talenti e delle competenze dei rifugiati che tentano di rifarsi una vita; selezionare le persone che se ne occuperanno; coinvolgere il contesto locale; creare immagini positive nei confronti del pubblico anche attraverso adeguate campagne di comunicazione. E, magari, dare una voce ai diretti interessati.

 

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