[di Michele Docimo] – Vivere è diventata, ormai, la cosa più difficile in questo lembo di terra.
Eppure per un po’ ho pensato di essere fortunato. Perché, sapete, io vivo a piano terra, in un cortile circondato da altri fabbricati e dalle mie finestre non vedo il fumo. Per un po’ ho pensato di essere al sicuro.
Ma poi questo senso di fortuna e di sicurezza mi passa subito e penso che sulla mia testa pende una enorme spada di Damocle sostenuta da un crine di cavallo sempre più esile e mi accorgo che la spada è la stessa che pende sulla testa, e sul collo, di chi dalle proprie finestre vede fumo e fiamme.
Siamo tutti condannati, nessuno può sentirsi escluso. Il 2064 è sempre più vicino. Anzi, notando l’inerzia di chi ci amministra sembra avvicinarsi a larghe falcate, inesorabilmente.
2064 sembra così lontana come data ma è appena mezzo secolo e si compirà “l’ecatombe” di cui da tempo parlano i vescovi delle 7 Diocesi della Terra dei Fuochi. Mezzo secolo in cui i milioni di metriquadri di rifiuti tossici, di merda, su cui siamo seduti raggiungeranno la falda acquifera polverizzando ogni forma di vita.
Cosa si aspetta? Cosa si aspetta a correre ai ripari. Cosa si aspetta a trovare quel nesso di casualità che la comunità scientifica non riesce a trovare.
Una comunità scientifica che tranne poche voci che gridano nel deserto non riesce a spiegarsi e a spiegarci perché qui si muore di tumore più che altrove.
Nei giorni scorsi una signora di Orta di Atella ha affidato al social network il suo sfogo ed ha detto che nella sua famiglia formata da tre sorelle sono tutte e tre ammalate di tumore e dice che è perché abitano nei pressi di una zona dove vengono scaricati rifiuti speciali ed accesi roghi tossici.
Una analisi semplicissima e cristallina quella fatta dalla signora, come fanno a non accorgersene gli scienziati?
Se non c’è nesso di casualità ed il tumore è una mera fatalità credo che in quella famiglia si siano ammassate troppe fatalità. Indubbiamente quella è una famiglia distrutta. Ma è la famiglia di ognuno di noi.
Qui si continua a morire più che in ogni parte d’Italia con l’asticella delle percentuali che continua a salire e l’aspettativa di vita che continua a scendere.
E tutt’intorno la stasi, l’inerzia di chi ci dovrebbe governare e di chi dovrebbe tutelare la nostra salute che ogni tanto vengono qui: ed una volta ci dicono che abbiamo stili di vita sbagliati ed un’altra vengono a chiederci scusa. Per non parlare della pagliacciata del registro tumori, continui tira e molla, dopo anni di battaglie, per concepire una legge da far bocciare.
Quante beffe dolorose ancora dobbiamo sopportare? Come se non fosse già doloroso accompagnare nell’ultimo viaggio un figlio, un genitore o un amico.
Qualche giorno fa il viceprefetto Cafagna intervenuto al Seminario Vescovile in un incontro organizzato dal Comitato Fuochi nel fare il punto della situazione ha detto, citando il romanzo “A che punto è la notte” ha detto che «la notte è ancora nera». Dopo quelle parole m’è venuto in mente che quel romanzo l’avevo letto, da adolescente negli anni ’90 e che c’era un incipit di un capitolo che m’aveva un po’ scosso a suo tempo. Sono andato a riprendere il libro e ho ritrovato quella frase:
“Guardare non significava vedere. Vedere non significava capire”.
Cafagna ha suggerito, inconsapevolmente, una chiave di volta. Dobbiamo stravolgere quella frase del romanzo. Dobbiamo vedere e capire.
Dobbiamo agitarci perché c’è bisogno di tutto il nostro entusiasmo.
Dobbiamo ribellarci, nessuno deve sentirsi escluso. Ma fin quando saremo tutti quanti noi portatori sani di camorra, fin quando per molti, per dirla con Saviano “non esiste un modo per vivere al di là delle dinamiche del potere” poco o nulla cambierà.
Finchè ci saranno le fabbriche tessili e calzaturiere in nero e mercati paralleli di pneumatici all’insaputa del fisco con residui che non possono essere smaltiti nel circuito ufficiale non avremo tregua. Ma in tanti stanno facendo la loro parte e sono sempre di più quelli che stanno partendo dai piccoli gesti per invertire la tendenza.
Dobbiamo organizzarci perché c’è bisogno di tutte le nostre forze.
Sarà una lotta dura. Spesso avremo paura, spesso piangeremo. Spesso vorremmo mollare tutto e darci “coraggiosamente” alla fuga. Realizzeremo di essere entrati in guerra con un nemico molto più forte di noi. Ma lo dobbiamo alle tante persone che c’hanno lasciato. Combatteremo, ma non saremo eroi, faremo semplicemente il nostro dovere perché come c’ha insegnato don Peppe Diana “Non c’è bisogno di essere eroi, basterebbe il coraggio di avere paura, di fare delle scelte, di denunciare”.
photo credit: Mauro Pagnano