16 ottobre 1968: I pugni che fecero la Rivoluzione

Faceva caldo, molto caldo. Il cielo era nuvoloso. La classica giornata afosa e nuvola che solo il Messico sa dare.

Ed il Messico quell’anno ce l’aveva messa tutta a sfornare una giornata del genere. Era il 16 di ottobre e l’anno era il 1968. Uno di quegli anni che nella storia hanno lasciato il segno e di cui ancora oggi se ne sente parlare “Io? Io ho fatto il ’68 hai capito?” “quello lì era un sessantottino”.

Era l’anno della contestazione e della richiesta, a tratti violenta, di una trasformazione della società. Era l’anno in cui si voleva, fortemente, costruire un mondo migliore e si inneggiava alla “fantasia al potere” per un nuovo tipo di società, dell’invasione sovietica che reprime la Primavera di Praga, della guerra in Vietnam, degli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy, della guerra civile e la carestia in Biafra con migliaia di morti per fame, le impiccagioni di neri in Rhodesia e in Sud Africa.

Nella megalopoli messicana c’erano le Olimpiadi. Anche il sacro fuoco d’Olimpia venne travolto dal 1968. Agli sconvolgimenti mondiali si sommò la follia del governo messicano che nella notte fra il 2 ed il 3 di ottobre compì un’orrenda strage di studenti pochi giorni prima della cerimonia di inaugurazione olimpica.

All’origine del massacro le incursioni che i granaderos, i poliziotti messicani, iniziarono a compiere nelle Università e alle quali gli studenti si opposero iniziando a manifestare contro il presidente Diaz Ordaz. Questi accusò gli studenti di voler boicottare i Giochi con le loro proteste ed ordinò l’occupazione militare dell’Università di Città del Messico, con centinaia di arresti. La situazione generò col massacro di Piazza delle Tre Culture di cui ancora oggi non si hanno cifre ufficiali di studenti morti e dispersi.

Ma il grande circo dei Giochi Olimpici non si potè fermare. The show must go on avrebbe cantato quasi 30 anni dopo Freddy Mercury. Tra le proteste di tutti il Cio decise che le Olimpiadi si sarebbero tenute stendendo una sorta di velo pietoso su quanto successo.

Ed Olimpiadi furono. Per la prima volta fu una donna, Enriquete Basilio Sotelo, l’ultimo tedoforo a portare la fiaccola olimpica e Fosbury strabiliò tutti col suo salto diverso dal solito (di schiena) all’asticella del salto in alto che oggi è ormai utilizzato da tutti e chiamato “salto alla Fosbury”.

Ma venne quella giornata calda, molto calda e nuvolosa, quella classica giornata afosa e nuvola che solo il Messico sa dare.


Una serata di Giochi Olimpici che all’apparenza sembrano tutte uguali. C’era la finale dei 200 metri. Un testa a testa eccezionale nella prima parte ma c’è poi la vittoria ed il record del mondo di Tommie Smith.

Ma il record non è il solo evento eccezionale di quella sera. Smith polverizza il precedente primato ed è il primo uomo a scendere sotto il muro dei venti secondi sui duecento metri, ma nemmeno questo è il solo evento eccezionale della serata.

Tommie Smith era nato in Texas nello stesso giorno dello sbarco in Normandia. Era cresciuto in una piantagione di cotone e si era iscritto all’università vendendo macchine. Era veloce in pista, così veloce che lo chiamavano Tommie Jet e lo paragonavano a Jesse Owens, il campione afro-americano che nel ’36 aveva tolto il sorriso a Hitler dominando le Olimpiadi di Berlino nonostante la pelle scura.
Ma Tommie non non voleva essere un buon cittadino quando vinceva e negro il resto dell’anno. Quando tagliò il traguardo davanti a tutti in Messico, Tommie Smith aveva 24 anni e decise di dedicare la sua medaglia d’oro ai fratelli e alle sorelle che venivano linciati, umiliati, esclusi nella terra delle pari opportunità.

Al terzo posto si piazzò John Carlos. John era nato ad Harlem, il ghetto nero di New York, lavorava nel negozio di scarpe del padre e arrotondava aprendo le portiere dei taxi davanti al Cotton Club che rilanciava le note di Duke Ellington dal jazz al blues al gospel.

Grazie alle sue doti atletiche, aveva vinto una borsa di studio al college e si era trasferito in California dove si allenavano i velocisti più forti del paese. Lì, alla San Josè State University, aveva conosciuto Tommie Smith e insieme avevano aderito al Progetto olimpico per i diritti umani, una petizione degli atleti afro-americani contro le discriminazioni razziali promossa da Harry Edwards, sociologo e attivista con un passato da lanciatore del disco, il ‘Professor Protesta‘ di uno dei tanti campus in fermento contro la guerra del Vietnam che la tv portava nelle case americane nella seconda metà degli anni Sessanta. Quando conquistò la medaglia di bronzo a Città del Messico, John Carlos aveva 23 anni e pensò che la giustizia sociale fosse più importante di un pezzo di metallo.

Sul podio c’era anche un australiano Peter Norman, bianco, 26 anni, nella vita di tutti i giorni membro dell’Esercito della Salvezza.
Quel podio cambiò la storia. Più delle occupazioni, degli omicidi e dei massacri. Bastò un paio di guanti ed una spilletta.

Gli atleti neri americani salirono sul podio senza scarpe coi calzini neri e una mano guantata. Col pugno alzato ed il capo chinato ascoltarono l’inno americano. L’atleta australiano indossò una spilla del movimento del “Professor Protesta” e chinò il capo anche lui.

Il pugno destro di Smith era la forza dell’America nera. Quello sinistro di Carlos la sua unità. I piedi nudi avvolti nei calzini neri lo stato di povertà in cui il loro popolo versava da sempre. La testa piegata durante l’esecuzione dell’inno un omaggio a tutti quelli che avevano perso la vita per la libertà. Il pubblico fischiò, applaudì, gridò: in pochi si resero conto sul momento di quello che stava succedendo. La reazione del Comitato olimpico internazionale fu immediata. I due atleti furono sospesi dalla squadra americana ed espulsi dal villaggio olimpico, fu inventata l’accusa di aver ricevuto soldi sottobanco. Rispediti in patria, ricevettero pacchi di sterco e minacce di morte dal Ku Klux Klan.

Ma il vero evento di quella sera afosa e nuvola che solo il Messico sa dare era proprio in quei pugni. Pugni che hanno abbattuto barriere senza fare del male a nessuno. Pugni che hanno fatto la rivoluzione.

Michele Docimo

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