Dino Frisullo
Il Dirottamento
In memoria di Malli Gullu
rimpatriata dal paese che non vide mai
27 X 2001
Quando i venti uomini, attraversato l’enorme capannone ingombro di merci, entrarono nella sala mortuaria e si allinearono in silenzio intorno alla bara, il tempo si fermo’ per un lunghissimo momento. Con loro, ai quattro angoli d’uno squallido sgabuzzino senza finestre, quattro agenti della Polaria e il direttore dello scalo merci di Fiumicino.
Il sonoro ronzio di un moscone attrasse alcuni sguardi. Veniva dal sole caldo dell’ottobre romano. Dalla vita. Attraverso’ la stanza e volo’ subito fuori, come spaventato.
Quaranta occhi tornarono a fissare il telo grezzo bianco malamente appuntato sotto un mazzo di fiori mezzo stecchiti, su una cassa di legno innaturalmente grande per il corpo di una giovane donna.
Nessuno fiatava. Qualche mano si mosse esitante a sfiorare il legno, i chiodi, la tela. Alcuni occhi si chiusero forte sotto le fronti aggrottate per scacciare un pensiero, un’immagine. L’immagine di quel corpo che doveva essere stato bello e fresco un tempo, e il giorno prima non era potuto partire perche’ troppo gonfio e guasto.
Dopo due giorni nella stiva di quella nave e altri dieci in chissa’ quale magazzino a Crotone, il comandante aveva rifiutato di caricare la bara. Troppo forte l’odore della morte. Forse avevano dovuto cambiarla con una piu’ grande ed ermetica, che potesse contenere cio’ che era diventato il corpo di Malli Gullu’.
Il moscone rientro’ nella stanza con un ronzio leggero e si poso’ piano sulla bara. Si guardo’ intorno disorientato, fece un mezzo giro su se’ stesso, poi volò ancora dritto verso la porta e si scaglio’ verso il cielo, tendendo le ali brillanti come un aereo in fase di decollo.
L’aereo lacerò la ragnatela delle nuvole e protese le ali brillanti in alto, verso il sole…
“Riprenditela, ma falle cambiare vita. E cambia strada pure tu, finche’ sei in tempo. Lo sappiamo che sei un terrorista, tu e tutti i tuoi parenti laggiu’ a Sirnak. Ce l’hai portata tu nella sede dell’Hadep, tua moglie, e tu sei responsabile dei suoi guai. La prossima volta non la rivedrai tanto facilmente!”
L’uomo senti’ i muscoli del viso e delle braccia tendersi dolorosamente nello sforzo di non rispondere, di non colpire. Si chino’ e sollevo’ quasi di peso il corpo sottile di Malli afflosciato su una sedia. Senti’ all’orecchio il suo respiro pesante, quasi un rantolo. I lunghi capelli erano rappresi dallo stesso sangue che macchiava il vestito, il viso era annerito dai lividi.
Lentamente, un gradino dopo l’altro, riusci’ a portarla giu’ per le scale della caserma di Gebze. Ogni movimento le strappava un gemito. Il gendarme di guardia al portone li guardo’ entrambi con odio prima di premere il pulsante.
Fuori accorsero le donne, la sollevarono delicatamente sulle braccia robuste intrecciate a barella, volarono verso la macchina in attesa. I loro veli bianchi le fluttuavano attorno come un vestito da sposa.
“Mi hanno torturata…”
Il medico finse di non sentire, si caccio’ le mani nelle tasche del camice e si rivolse bruscamente all’uomo in attesa: “Portala via, ha solo contusioni, guarira’ presto”.
Guardo’ gli occhi imperiosi dell’ufficiale in piedi in fondo alla stanza, poi distolse lo sguardo dalla domanda muta dell’uomo.
“Lo so che vorresti una certificazione, ma non ce n’e’ bisogno. Tua moglie non ha versamenti interni o fratture, i lividi spariscono in fretta. Se dovessimo metterci a scrivere per ogni sciocchezza…”
Quando le tavole di lamiera si chiusero con colpi secchi di chiavarde sopra le loro teste, Malli barcollo’ e sarebbe caduta se non avesse trovato, nel buio, il braccio di suo marito. Gli si strinse e le due bambine si strinsero ad entrambi. L’aria era irrespirabile, rappresa di calore e fetore. “Come in quella cella…” mormoro’. “Manca l’aria e la luce, come la’ dentro. Ricordi? Mi sento male come allora. Ma qui almeno non verra’ nessuno a picchiarmi, e ci siete voi…”
Scandiva le parole con difficolta’, ansimando. Lui le accarezzo’ con dolcezza i capelli e la fronte, come faceva sempre quando le tornavano quei ricordi.
“Calma, Malli. Siamo come in prigione, e’ vero, ma ti attendeva una prigione molto peggiore. Invece stiamo andando verso la liberta’. Fatti forza, e’ l’ultima fatica“.
Qualcuno nel buio gli tocco’ il braccio, poi senti’ una voce in kurdo con l’accento del sud. “Heval, avete cibo e acqua con voi? Siamo chiusi qua dentro in quattrocento da tre giorni, fermi ad aspettare voialtri dalla Turchia. Abbiamo messo in comune tutto, dovreste farlo anche voi. Abbiamo sete. Ci e’ rimasta solo una tinozza d’acqua sporca e dei pani ammuffiti che non vi consiglio, hanno fatto apposta a lasciarceli vicino alla latrina. Hai acqua e pane per i miei bambini, heval?”
Lui si svincolo’ lentamente dall’abbraccio di Malli, si chino’ a rovistare nel grande zaino militare e ne trasse una bottiglia e due pani rotondi odorosi di sesamo. L’altro quasi glieli strappo’ di mano mormorando un “grazie, heval“. Con gli occhi ormai abituati all’oscurita’, lo videro farsi largo nel groviglio di corpi fino a un gruppo di donne e bambini addossati alla parete, accasciati sul terriccio misto a letame che copriva il fondo della stiva. I pani e l’acqua finirono in un attimo.
Questa volta tutti, anche i poliziotti, si volsero a seguire affascinati il volo del moscone. Poi tornarono a guardare alternativamente la bara e i propri piedi, incerti.
Avevano lasciato il centro d’accoglienza cosi’ in fretta da dimenticare sul tavolo il gran mazzo di fiori gialli e rossi un po’ appassiti che il giorno prima avevano comprati per poche lire da un fioraio amico e s’erano dovuti riportare indietro. Che fare davanti a una bara, senza neanche un fiore? L’italiano ripenso’ alla burocrazia aeroportuale che aveva escluso categoricamente la possibilita’ di esporre la bara nella chiesetta accanto all’aeroporto, dove avrebbero potuto circondarla di fiori, pensieri e parole con quella serenita’ che donano le chiese di campagna anche a chi non crede o crede in un altro Iddio.
“Non si puo’, il feretro ha gia’ i fogli per l’espatrio, dunque e’ come se fosse gia’ all’estero, e la chiesa e’ territorio nazionale, non puo’ rientrare in Italia neanche per pochi metri, le norme sono chiare…”
Cosi’ dovevano salutarla fra quelle mura scrostate chiuse da una saracinesca, unico arredo un lavandino nella parete di fronte. L’italiano strinse i pugni e inghiotti’ un fiotto di rabbia impotente. Il piccolo Mahsun fu il primo a sollevare lo sguardo. Si schiari’ la gola e comincio’ a parlare in turco in tono sommesso, poi via via piu’ alto. Tutti pendevano dalle sue labbra.
“Questo corpo, compagni, e’ di una donna del partito Hadep. Ha conosciuto la prigione e la tortura per lo sciopero della fame che le donne intrapresero in tutte le citta’ tre anni fa, quando fu sequestrato in Kenya il nostro presidente. E’ fuggita dalla Turchia con il marito e le figlie perche’ per quello sciopero della fame l’attendeva una condanna a lunghi anni di carcere. E’ morta soffocata nella stiva di una nave…”
Quelle navi di legno fradicio e di ferro arrugginito… Chi veniva dai villaggi il mare non l’aveva mai conosciuto, e ne aveva paura.
Negli incubi di ciascuno di loro, anche dei bambini, soprattutto dei bambini, ritornava il mare e quelle stive fetide, le armi spianate dei poliziotti che li scortavano nella notte fino al porto e poi quelle degli equipaggi mafiosi, le banconote passano di mano in mano in pacchetti sempre piu’ grossi, le onde sempre piu’ alte nella notte nera, i colpi che sembrano spaccare il fasciame, gli ordini secchi, il pianto dei bambini, il puzzo pungente di orina, l’imbarazzo delle donne per la promiscuita’, il rombo dei motori e delle eliche, e poi d’improvviso il silenzio, lunghe attese sballottati in mezzo al mare, e nuovi carichi umani e la nave riparte, i vestiti si fanno ruvidi d’untuosa polvere salmastra, le barbe lunghe e la fame, e le canzoni le storie gli scherzi in dieci lingue per far passare la fame e la paura, ma i racconti tornano sempre alla prigione e alla guerra e qualcuno protesta, basta pensiamo al futuro, siamo quasi in Europa, e l’Europa prende forma di scogli appuntiti e neri nel mare in tempesta, il timone impazzisce e l’equipaggio fugge, la nave fa acqua, torna il terrore della morte, le urla non sovrastano il muggito del mare nella notte nera o nell’alba livida, e poi finalmente una nave, un elicottero, qualcuno in aiuto, e l’incubo finisce ma torna ogni volta che chiudi gli occhi, soprattutto i bambini, che non vogliono piu’ dormire per non rivedere in sogno il mare… Venti pensieri corsero alle navi che ciascuno aveva conosciuto. Uno dopo l’altro, tutti si sorpresero a tirare un respiro profondo. L’atmosfera s’era fatta d’improvviso ancora piu’ soffocante, come in quelle stive o nei cassoni di quei Tir allineati nel ventre dei traghetti.
Il terzo giorno Malli svenne. Quando si riprese fra le braccia del marito, senti’ che qualcosa le si era spezzato dentro. Rantolava. Ogni respiro era come una coltellata sempre piu’ profonda.
Intorno a loro tutti dormivano addossati gli uni agli altri. Respiravano forte o russavano, e quel rumore ritmato di quattrocentocinquanta respiri all’unisono s’impastava con il rombo pulsante dei motori.
Malli si porto’ le mani alle orecchie che fischiavano, si senti’ svenire un’altra volta. Si fece forza.
“Forse sto per morire” disse piano all’orecchio dell’uomo, che protesto’ debolmente. Bisbiglio’ ancora alcune parole e l’uomo scosse la testa con forza, poi la sua bocca si stiro’ in un sorriso incerto.
“Se non e’ che questo… Non morirai, sta’ tranquilla, era solo un malore. Comunque, se proprio vuoi… Ma come facciamo, in mezzo a tutta questa gente?”
Alla fine cedette, frugo’ nello zaino e ne tiro’ fuori un vestito. Era il piu’ bello, quello rosso e verde rilucente dell’oro delle monete e dei monili, quello delle danze e delle feste piu’ importanti. Le stese intorno una coperta e distolse lo sguardo, ma con la coda dell’occhio la guardo’ mentre a fatica, gemendo, lei si sfilava il vestito scuro e si fasciava di lucida seta.
Si senti’ soffocare dalla tenerezza. La sua compagna (cosi’ la chiamava, non moglie, malgrado le proteste dei suoceri) non era mai stata cosi’ bella… Quando gli occhi di Malli divennero vitrei, la sua bocca sorrideva ancora. Lui capi’ subito e comincio’ a urlare. Tutti si svegliarono. Il suo grido divenne l’urlo disumano di quattrocento gole.
Continuo’ per due giorni e due notti quell’urlo, perdendosi nel vento e nel mare.
“Sono impazziti la’ sotto… Se gli apriamo ci saltano addosso, non se ne parla nemmeno. Buttategli qualche bottiglia d’acqua, qualche scatola di antibiotico. Che ci siano morti come gridano, non ci credo, hanno la pelle dura quei cani, sentite? ululano proprio come cani…”
Quando al largo di Crotone la issarono sopra coperta, il suo corpo snello s’era gonfiato al punto che tutti pensarono che fosse stata incinta. Ma sembrava ugualmente una regina. Sulla seta lucente il vento di maestrale agitava i lunghi capelli neri e faceva tintinnare le monete d’oro.
Svegliato di soprassalto dal suo stesso urlo l’uomo si drizzo’ nel lettino, madido di sudore. Si porto’ le mani alla gola. Lentamente torno’ a respirare. Per fortuna le bambine non s’erano svegliate…
Le guardo’ dormire abbracciate e si chiese con angoscia se avrebbero mai avuto una vita normale, se avrebbero messo da parte il ricordo dei giorni trascorsi in quella stiva accanto al cadavere della madre.
Torno’ a stendersi senza chiudere gli occhi. Quel pomeriggio il corpo di Malli era volato via verso Roma e Istanbul. Ne aveva avuto la certezza dall’interprete, ma non aveva potuto nemmeno rivedere la bara. Voleva accompagnarla fino a Roma nell’ultimo viaggio. La burocrazia l’aveva bloccato la’ nel campo di Crotone: niente da fare, non aveva ancora il permesso di soggiorno. Quella sera, per la prima volta in dieci giorni, era riuscito a piangere.
“Vorrei tornare anch’io con lei…”
Dalle roulotte rugginose allineate sulla pista dell’ex aeroporto erano usciti in tanti, gli si erano stretti intorno senza parlare. Il suo dolore era anche il loro.
“Vorrei tornare…” Indicava in direzione del mare, oltre il mare e le montagne di Grecia e d’Anatolia. Tendeva le mani verso un villaggio del Botan, le ombre dolci delle montagne e il verde della valle del Tigri, il profumo del fieno, i canti e le risate nel tramonto, i vecchi accoccolati davanti alle case, le donne alla fontana, l’odore del pane appena cotto… Lo sentirono tutti all’improvviso, l’odore del fieno e del pane. Fu quando un anziano gli prese le mani e disse con voce forte, a lui e a tutti: “Non piangere piu’. Tua moglie ha finito di soffrire. E’ tornata nel vostro villaggio e ti aspetta. Un giorno prenderai per mano le tue figlie e tornerai laggiu’ con loro. Con tutti noi. Torneremo un giorno nel nostro paese, ricostruiremo i villaggi distrutti e canteremo nella nostra lingua, e taglieremo il fieno e spezzeremo il pane...”
“Possiamo scrivere due parole di saluto sulla stoffa della bara? Nella fretta abbiamo dimenticato anche i fiori…” Il sottufficiale si strinse nelle spalle e fece segno di si’. Un agente sorrise e trasse di tasca un pennarello nero. Scrissero lentamente sulla tela, in stampatello, due frasi di commiato in turco. In kurdo, lo sapevano, quelle parole sarebbero state cancellate all’arrivo a Istanbul.
“Noi, popolo kurdo in Italia e amici italiani…” Come in un rito sfilarono davanti alla bara passandosi il pennarello e firmarono. Alcuni con uno sgorbio, per non far riconoscere il proprio nome; altri per esteso, come per sfida. Si guardarono incerti. Mahsun alzo’ le braccia. Era finita. Il direttore dello scalo merci annui’: l’aereo attendeva in pista.
I kurdi si posero le mani giunte sul viso in un gesto di raccoglimento, quasi di preghiera, poi le appoggiarono sulla bara. Gli italiani li imitarono. Il funzionario tossicchio’, imbarazzato e impaziente.
Uno dopo l’altro staccarono le mani dalla bara. Uno degli italiani disse in turco, a voce alta: “Un giorno le tue figlie torneranno nel tuo paese libero, te lo giuriamo”. In fila indiana, con un ultimo sguardo alla bara, si avviarono verso l’uscita.
Il moscone saetto’ verso l’alto, libero…
I venti uomini si scossero, come folgorati dalla stessa idea. Si volsero all’unisono. Le loro braccia sollevarono la bara con facilita’.
Si mossero lentamente, solennemente, verso la pista dove l’aereo per Istanbul scaldava i motori. Gli agenti, sorpresi, li lasciarono passare. Quegli occhi incutevano rispetto.
Il piccolo corteo raggiunse l’aereo in attesa. A un chilometro di distanza i passeggeri si stavano stipando in un bus navetta. Ma per loro era troppo tardi. Caricarono la bara nella stiva, poi salirono la scaletta. Nessuno mosse un dito per fermarli, neppure quando ordinarono all’equipaggio di chiudere i portelloni e decollare. Non avevano armi e non ce n’era bisogno. Bastarono gli sguardi. Quando l’aereo atterro’ sulla vecchia pista dell’aeroporto di Crotone, l’uomo gia’ sapeva che sarebbero arrivati. Non disse una parola, ma prese per mano le sue bambine e segui’ l’anziano.
In cento uscirono dalle roulotte e salirono a bordo. Pochi minuti dopo l’aereo lacero’ la ragnatela delle nuvole e protese verso il cielo le ali brillanti.
All’arrivo a Istanbul una grande folla lo attendeva. Travolsero i cordoni di polizia, guidati e trascinati dalle donne di Gebze. Uscirono dall’aeroporto, la bara di Malli Gullu’ in testa, ed erano gia’ in mille.
Quando attraversarono i quartieri di Istanbul e furono centomila, fu chiaro che neanche i blindati li avrebbero fermati. La notizia volo’. Milioni di profughi si misero in cammino dall’Europa e da tuttala Turchiaverso oriente.
Verso il Kurdistan, verso il sole, il fieno e il pane.
Dino Frisullo – 27 ottobre 2001
(E’ tutto vero, tutto… tranne il finale: vi prego, facciamo che un giorno sia vero anche quello…)